Occlusione coronarica cronica (CTO): quando trattarla

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Occlusione coronarica cronica (CTO): quando trattarla

Criteri di selezione del paziente e del tipo di lesione coronarica cronica da sottoporre a procedura di disostruzione

Benefici e rischi della rivascolarizzazione di una occlusione coronarica cronica

Una lesione può essere classificata come “occlusione cronica totale” quando è presente flusso TIMI 0 a valle del segmento occluso ed evidenza clinica o angiografica di un periodo di occlusione ≥ 3 mesi1; il flusso TIMI (Thrombolysis in Myocardial Infarction) è ampiamente utilizzato come sistema di score, con valori da 0 a 3 riferiti ai livelli di flusso ematico coronarico valutato durante l’angioplastica coronarica. In accordo con i dati del Dynamic Registry della National Heart, Lung and Blood Institute (NHLBI) dal 1997 al 1999, le CTO sono maggiormente prevalenti nell’arteria coronaria destra e meno comuni nell’arteria circonflessa e aumentano con l’aumentare dell’età dei pazienti2. Piuttosto frequenti nei pazienti sottoposti a coronarografia, con una prevalenza che varia dal 15 al 20%, si tratta del sottotipo di lesione coronarica più complessa da trattare per cui sono necessarie tecniche e materiali dedicati non sempre disponibili. Una CTO si sviluppa spesso come organizzazione di un trombo e sua sostituzione con tessuto connettivale riparativo in seguito alla rottura di una placca, creando una lesione composta da una dura cuffia fibrocalcifica prossimale ed una meno fibrosa a localizzazione più distale, che circondano l’area centrale di trombo organizzato3. Inoltre si verifica una spiccata angiogenesi capillare in tutta la parete del vaso, prima avventiziale e poi intimale e nuovi canali vascolari possono svilupparsi anche durante l’organizzazione del trombo connettendo il lume prossimale con il distale4. Quanto descritto richiede ovviamente tempo e, conseguentemente, appare evidente come la frequenza delle CTO aumenti con l’età dell’individuo. Lo spettro di manifestazioni cliniche associate alla presenza di un’occlusione coronarica cronica è piuttosto eterogeneo e non infrequentemente sono riscontrate in soggetti asintomatici o pauci-sintomatici, soprattutto se associate ad un pregresso infarto miocardico a decorso misconosciuto come più spesso accade nei casi di coinvolgimento della coronaria destra. Se da un lato, la paucisintomaticità condiziona il corretto inquadramento epidemiologico di tali lesioni, dall’altro la severità delle manifestazioni cliniche ad esse associate determina la successiva strategia terapeutica. Negli anni passati, si è potuto osservare come un’occlusione coronarica sia presente nel 30-40% circa dei pazienti con patologia coronarica ma anche come solo nel 7-15% di questi pazienti venga effettuato l’approccio percutaneo. La disparità tra l’incidenza delle CTO e il loro trattamento per via percutanea può essere spiegata considerando lo scarso tasso di successo procedurale rispetto alle altre lesioni coronariche, la complessità tecnica e procedurale di questo tipo di angioplastiche, e soprattutto le evidenze cliniche discordanti circa la rivascolarizzazione di questo sottogruppo di lesioni5-7. Ciò nonostante, numerose sono le evidenze in favore della rivascolarizzazione percutanea di una CTO se associata a miocardio vitale8, 9. L’angioplastica delle CTO potrebbe determinare un miglioramento globale o regionale della frazione d’eiezione del ventricolo sinistro (LVEF), ridurre il rimodellamento dannoso del ventricolo sinistro, migliorare il flusso sanguigno miocardico ed aumentare la stabilità elettrica. Molti studi hanno dimostrato un significativo miglioramento della LVEF e del movimento di parete dopo la ricanalizzazione della CTO, correlato al mantenimento della riapertura del vaso riscontrata al follow-up10. Spesso la scelta del trattamento nei pazienti con CTO si basa sulla severità dei sintomi e/o sulla complessità della concomitante patologia coronarica, preferendo un atteggiamento più conservativo in coloro che presentano una sintomatologia stabile, piuttosto che una strategia invasiva quando la terapia farmacologica non si rivela efficace o quando la sintomatologia diventa particolarmente importante. Tre sono le ragioni fondamentali per sottoporre un paziente a procedura percutanea di ricanalizzazione di CTO: migliorare i sintomi nei soggetti con angina o dispnea da sforzo che limitano le attività quotidiane o, nei pazienti asintomatici o con sintomi modesti, ridurre l’entità dell’ischemia miocardica riscontrata con test di imaging non invasivi (RM cardiaca da stress, eco-stress, scintigrafia miocardica); migliorare la dispnea o i segni di scompenso in pazienti con funzione sistolica ventricolare sinistra depressa, aumentando la contrazione dei segmenti vascolarizzati dalla coronaria occlusa; migliorare la prognosi in pazienti in cui la progressione della patologia a livello dei vasi coronarici liberi può causare ischemia globale irreversibile. In genere le ricanalizzazioni di CTO non vanno eseguite immediatamente dopo l’esame diagnostico (cosiddette PCI ad hoc) per minimizzare l’esposizione a radiazioni ionizzanti e al mezzo di contrasto. Una procedura stadiata consente infatti una migliore pianificazione della strategia di disostruzione dopo un’accurata analisi dell’angiografia coronarica, permettendo di valutare la lunghezza e le caratteristiche dell’occlusione e il circolo collaterale. La scelta degli accessi arteriosi e del catetere guida è legata all’esperienza e alla preferenza dell’operatore ma in presenza di circolo collaterale eterocoronarico è fondamentale l’utilizzo di un doppio accesso per l’iniezione controlaterale che permette la visualizzazione del letto vascolare distale all’occlusione fornendo un punto di riferimento sul target distale da raggiungere. Inoltre, durante l’avanzamento di una guida anterograda, permette di evitare iniezioni anterograde di mezzo di contrasto che possono estendere un’eventuale dissezione del vaso. Con la tecnica della doppia iniezione aumentano quindi le possibilità di successo procedurale e si riducono le complicanze11, 12. Durante la PCI è fondamentale inoltre un attento monitoraggio del livello di anticoagulazione con misurazioni ripetute del tempo di coagulazione attivato (ACT) che va idealmente mantenuto sopra i 250 s per le procedure anterograde e sopra i 300 s per quelle retrograde.

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