C’è chi, per usare un gergo calcistico, “butta la palla in tribuna” e tuona: “è tutto da cambiare”
Se un atleta cade a terra non in seguito ad un trauma e senza dare segni di vita deve essere considerato sempre un arresto cardiaco e agire di conseguenza
Immagine di copertina: Giovanni Gardini colto dalla disperazione in occasione della morte in campo di Piermario Morosini nell’aprile del 2012
La partita era Fiorentina – Inter. Mi trovavo al supermercato quando sul cellulare è comparsa la chiamata di Giovanni Gardini, attuale CEO del Palermo Calcio. Con voce spezzata e impaurita, mi ha chiesto se stessi vedendo cosa accadeva a Firenze. “Patrizio, non ci posso credere!”, Giovanni, ex direttore del Livorno Calcio, era in panchina a Pescara quando assistette, impotente e disperato, alla morte in campo di Piermario Morosini. In quelle tragiche immagini di repertorio lo si vede urlare, agitato, senza poter fare nulla. La tragedia sembra ripresentarsi: Edoardo Bove è a terra, senza dare segni di vita. Compagni di squadra e avversari accorrono, disperati. Qualcuno prova ad aprirgli la bocca per “disostruirla” dalla lingua. Nessuno inizia il massaggio cardiaco, nemmeno l’arbitro. Scene già viste: ne ho in mente due principali. La prima risale al 2003, nella partita Brasile – Camerun. Dunga, inerme e sconvolto, sorregge la testa del povero Marc Vivien Foe, steso immobile a terra. Il suo sguardo è rivolto alla nuova vita che lo ha colto all’improvviso. Nessuno inizia il massaggio cardiaco. Poco dopo, un’immagine immortala una scena sconvolgente: l’uscita dal campo in barella con il braccio sinistro che pende inerte. La seconda è la partita fra Pescara e Livorno, nel 2012. Piermario Morosini, dopo alcuni tentativi di rimanere in piedi, crolla a terra, immobile. Viene immediatamente circondato da compagni, medici e addetti al soccorso. Ancora una volta, nessuno comprende la gravità della situazione: non viene avviato un massaggio cardiaco efficace e, drammaticamente, nonostante ci fossero due defibrillatori a disposizione dei soccorritori, nessuno li utilizza. Come è andata a finire, lo sappiamo tutti. Non siamo in grado di imparare dagli errori che la storia ci consegna. Non riusciamo ad ascoltare quello che da anni continua a “predicare” Jonathan Drezner, uno dei massimi esperti americani di arresto cardiaco in campo: se un atleta cade a terra senza apparente trauma e senza dare segni di vita, deve essere sempre considerato un caso di arresto cardiaco, e si deve agire di conseguenza. È possibile che non sia ancora chiaro che la prima azione da intraprendere è il massaggio cardiaco? E immediatamente dopo, la defibrillazione precoce? Invece no, nel mondo del professionismo, si continua a pensare a liberare la bocca dalla lingua. Dobbiamo tutti ripensare alle procedure. Quella domenica, i riflettori si sono spenti solo per pochi istanti sui campi di gioco, per riaccendersi sul tema dello screening medico sportivo. Ma che senso ha tutto questo? Come è possibile che tutto ciò accada ad un giocatore professionista con tutti gli accertamenti che semestralmente esegue? E allora ecco la difesa ad oltranza: lo screening salva l’89% dei valutati, citando ancora una volta la curva storica di Domenico Corrado, costruita sulla casistica raccolta da Maurizio Schiavon (troppo spesso dimenticato). Il contributo forse più citato al mondo sul ruolo dello screening pre-competitivo è stato ed è ancora fondamentale per la storia dello screening medico sportivo, tuttavia non descrive il vero focus nello screening del medico dello sport italiano. Questi dati fanno riferimento ad una valutazione che comprendeva: storia clinica, visita ed elettrocardiogramma a riposo. Il medico dello sport oggi fa ben altro: prova da sforzo ad ogni valutazione e rivalutazione annuale. È proprio la ripetitività della valutazione che ci permette di valutare l’eventuale comparsa di anomalie elettrocardiografiche confrontandole con quelle degli anni precedenti, associata al riscontro di aritmie ventricolari alla prova da sforzo. Tutto ciò aumenta la potenzialità diagnostica del nostro sistema di screening del 30% di patologie cardiache potenzialmente a rischio di arresto cardiaco. Ecco la vera essenza del modello italiano. Ma di questo non si parla quasi mai. A questo punto verrebbe da chiedersi: siamo proprio certi che nei casi più eclatanti di Eiksen, Colbrelli, Astori e infine Bove lo screening non abbia funzionato? O qualche cosa non ha funzionato nella gestione dopo la diagnosi? Questo, non lo sapremo mai. E allora si perderà ancora una volta un’occasione fondamentale per capire dove e in quale ambito dobbiamo migliorarci. Fatti come questi fanno risvegliare, anche da chi non si occupa di questi argomenti, la critica al sistema italiano, “…in Italia, diversamente dal resto del mondo, si nega la libertà di scegliere e viene vietato il ritorno in campo dopo l’impianto del defibrillatore…”. Stesse affermazioni. Stesso copione. Si aprono dibattiti e difese ad oltranza: tutti contro tutti. C’è chi, per usare un gergo calcistico, “butta la palla in tribuna” e tuona: “è tutto da cambiare”. Sembra impossibile ma del nostro lavoro, quello del medico dello sport, si parla solo di fronte a tragedie consumate o appena sfiorate per mettere in discussione l’utilità dello screening. Ci si dimentica ciò che quotidianamente in ogni ambulatorio italiano di medicina dello sport viene svolto. Poco importa se a migliaia di atleti, viene offerta la possibilità di una diagnosi precoce salvavita. O come vengano presi in carico giovani atleti, diventati pazienti troppo presto. Non posso non rilevare che tutti si sentono autorizzati a parlare di screening anche se non lo praticano e, nella peggiore delle ipotesi, senza mai esserne occupati. Pronti a sentenziare senza avere le competenze. In quei giorni decine di articoli sono stati scritti sul caso Bove. Tra i tanti, forse troppi, mi sono imbattuto in quello di Paolo Balduzzi del Messaggero: “Bove, le regole difformi che minano la libertà”. Se le mie informazioni fossero corrette, il Dott. Paolo Balduzzi dovrebbe occuparsi di economia. Mentre leggevo il suo articolo mi chiedevo: cosa c’entra un economista con il ritorno in campo di un atleta, per di più dopo un arresto cardiaco al quale è stato impiantato un defibrillatore? Domanda alla quale fatico a dare risposta. In quei giorni, come dicevo, la maggior parte dei media affrontava lo stesso argomento: “Quando e dove tornerà a giocare Edoardo Bove”. “Possibile che in Italia non si possa tornare liberamente in campo dopo un semplice e breve intervento – interessante questa definizione – per l’applicazione di un defibrillatore?”. Tutto questo mi ha lasciato sconcertato. Mi sembrava di rivivere gli anni del Covid. Più leggevo, più mi sembrava di tornare indietro. Tutti esperti su tutto. Vorrei invece spostare la “partita” su un altro campo. Mettiamo al centro non il pallone, ma la persona. In questo caso, un giovanissimo paziente. Ad oggi non si conosce ancora la causa che ha determinato l’arresto cardiaco. Perché di arresto cardiaco si è trattato, non di un semplice “malore” come qualcuno continua a definirlo. Il termine è troppo generico e rischia di banalizzare un evento tragico. Succede sempre così: prima ancora di comprendere quale sia la stata la causa che ha generato un corto circuito che per poco non è costato la vita dello sfortunato, si sta già discutendo su quando tornerà in campo. E se fosse una malattia genetica? Una di quelle in cui lo sport ad elevato volume e intensità porta ad una progressione e gravità della patologia? O un’altra cardiopatia acquisita la cui espressività aritmica può essere peggiorata dalla scarica adrenergica che si associa all’agonismo o dalla disidratazione e squilibrio elettrolitico a cui si espongono gli atleti che si allenano all’aperto in condizioni climatiche estreme? Chiedo a tutti i commentatori improvvisati: lo scenario resterebbe lo stesso? L’errore che si continua a fare è che si riduce il tutto all’impianto del defibrillatore senza pensare alla causa che ha determinato l’arresto cardiaco. Ma qualcuno si è chiesto come stia Edoardo, ora? Una delle condizioni tipiche dei pazienti “resuscitati” è il totale blackout. Non ricordano nulla. La mente di Edoardo probabilmente ha registrato, come ultima immagine, l’allacciarsi le scarpe o gli attimi che precedevano la partita. Il risveglio è stato in una sala di terapia intensiva, molto probabilmente con un tubo in gola che gli ha permesso di respirare. Immagino si sia chiesto cosa facesse lì. Tra incredulità e terrore, si sarà domandato perché, all’improvviso, si sono spente le luci dei riflettori. Niente più incitamento dei tifosi o fischi degli avversari. Solo i suoni dei monitor e facce sconosciute. “Cosa mi è accaduto? Perché sono qui? Qualcuno mi può spiegare cosa è successo?”. Quando incontro pazienti ex atleti che hanno vissuto esperienze simili (ad oggi sono 16 in appena tre anni, con un’età media di 33 anni), sono queste le domande che si pongono nella solitudine di una terapia intensiva. Lo shock è enorme e non può essere sottovalutato. Serve tempo per rielaborare quanto accaduto. Non si può ricondurre tutto esclusivamente al “semplice” ritorno in campo. Questi pazienti non possono essere lasciati soli. Prima ancora di pensare a dove e quando verrà ripresa la loro attività sportiva, hanno bisogno di risposte, di percorsi dedicati. È su ciò che a Treviso concentriamo il nostro lavoro in questa particolare tipologia di pazienti ex atleti: la presa in carico clinicapsicologica-sportiva. Per un momento, vogliamo smettere di pensare a contratti, interessi economici, carriere e concentrarci sulla persona? È davvero così difficile? Possibile che nessuno si sia chiesto come stiano i genitori e la fidanzata di Edoardo, che hanno assistito dalla tribuna al tragico episodio? Sembra che nessuno se lo sia chiesto: probabilmente a nessuno interessa. La priorità diventa capire quando potrà tornare in campo, con il defibrillatore impiantato. Qualcuno spieghi a chi “tifa” cosa prova un paziente che ha vissuto una scarica del defibrillatore da sveglio. È una “botta” da 50 joule che cambia la vita, in attesa della prossima. Peggio ancora se la scarica è inappropriata. E se il defibrillatore avesse dei cateteri sarebbe importante sapere che possono rompersi o infettarsi, dando inizio a una via crucis che nessuno vorrebbe vivere. Per favore, fermiamoci un momento. In compenso, mi sento di offrire un tema di riflessione frutto della nostra esperienza: non tutti gli ex atleti resuscitati vogliono tornare in campo.