L’atleta Master: dalla maratona… al training in sicurezza

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L’atleta Master: dalla maratona… al training in sicurezza

L’atleta Master, una popolazione sportiva ad alto rischio cardiovascolare che difficilmente accetta la diagnosi di cardiopatia

Gli atleti Master, soggetti di età in genere >35-40 anni partecipano a competizioni organizzate dalle Federazioni Sportive affiliate al CONI. Le discipline che attirano maggiormente questa categoria di atleti sono prevalentemente sport di endurance: sforzi fisici di lunga durata che si praticano ad alte intensità. Il calcio e il tennis rimangono comunque sport storici con un numero di praticanti sempre molto elevato anche se negli ultimi anni il Paddle sta “rubando” atleti che vedono nella racchetta il loro attrezzo preferito. La popolazione “Master” si caratterizza per la sua estrema eterogeneità. Nello stesso gruppo, infatti, possono coesistere (e quindi competere insieme) atleti di età, preparazioni fisiche e storie sportive molto diverse. È frequente il caso di neofiti che ricercano nella pratica sportiva anche “massacrante”, la gioventù fisiologicamente perduta oppure ex atleti alla ripresa agonistica dopo anni di inattività che conservano solo il ricordo delle potenzialità prestative del passato. Non è infrequente inoltre trovare tra i partecipanti, ex campioni professionisti che non hanno mai smesso di allenarsi e competere per una sorta di “dipendenza” dalla quale non riescono a liberarsi. Molti atleti partecipano a competizioni ad elevatissimo impegno cardiovascolare non in perfette condizioni fisiche e, aspetto più grave, molto spesso sono portatori inconsapevoli di fattori di rischio cardiovascolare o, se trattati, sono mal controllati dalla terapia farmacologica. Anche per queste ragioni i Master sono caratterizzati da un tasso di mortalità più elevato durante lo sforzo fisico rispetto ai colleghi di giovane età. Lo studio Master@Heart (EHJ 2023), è il più ampio e completo che ha valutato la relazione dose-risposta tra lo sport aerobico intensivo e l’aterosclerosi coronarica in un ampio gruppo di atleti a basso rischio cardiovascolare confrontati con un gruppo di controllo con le medesime caratteristiche. I risultati hanno evidenziato una predisposizione a sviluppare un maggior numero di placche coronariche non calcifiche e miste, localizzate nei segmenti coronarici prossimali in grado di generare stenosi luminali significative. Questo condizione può essere spiegata anche dagli alti flussi coronarici che si sviluppano durante lo sforzo fisico intenso che, generando flusso turbolento, può probabilmente favorire un danno endoteliale che può contribuire a dare il via alla genesi della placca aterosclerotica. Tutto ciò deve far riflettere anche la classe medica che a volte attribuisce alla pratica sportiva effetti troppo “terapeutici” tollerando fattori di rischio non a target. Invece, come prima regola si impone il perfetto controllo dei fattori di rischio. Sulla scia di tale evidenza scientifica, per questa popolazione sportiva la pratica di una regolare attività fisica dovrebbe essere incoraggiata più come mezzo di prevenzione delle malattie cardiovascolari e metaboliche tipiche dell’età adulta che per gli aspetti propriamente tipici della competizione. Chi si occupa di medicina e cardiologia dello sport è ben consapevole che la popolazione Master è forse la più difficile da valutare: sono soggetti performanti, quasi sempre completamente asintomatici, che perfino di fronte al quadro cardiologico ad alto rischio non riescono ad accettare che la loro storia di atleti possa esaurirsi e pur di continuare nella pratica sportiva sarebbero pronti a fare “carte false”. Il perfetto esempio di atleta Master “temerario” è Paolo, che qualche giorno fa ho incontrato presso il nostro centro di Medicina e cardiologia dello sport. Ha 69 anni, un fisico longilineo e muscoloso, il viso scavato dalla fatica e bruciato dal sole. È nato per correre, così racconta. Ha concluso ben 50 maratone, per di più al notevole ritmo fra 4’15” e 5’30” al chilometro. Con un rapido Paolo ha percorso 2.109 chilometri e 75 metri con una prestazione di rilievo. E a quei chilometri “ufficiali”, vanno aggiunti le migliaia di chilometri di allenamento indispensabile a sostenere quel ritmo di corsa in funzione dei risultati voluti. Mai un sintomo né un malessere: una “macchina da corsa” fatta per macinare chilometri a ritmo sostenuto. Cosa ci fa nel nostro ambulatorio un atleta così performante? Con voce “spaccata” dalla tristezza, dice che da pochi mesi era diventato cardiopatico: “Non posso più correre, così mi è stato detto! Ma io non ho nulla, sono sempre stato bene, non ho mai avuto sintomi, come posso crederci?”. Solo in quel momento diventa chiaro il significato dei suoi occhi tristi “incontrati” poco prima in corridoio. A raccogliere la storia clinica di Paolo anche due giovani specializzandi in medicina dello sport, il dottor Carlo e la dottoressa Valentina: increduli, ascoltavano in silenzio. Ipertensione arteriosa, dislipidemia e diabete NON insulino-dipendente da molti anni: condizioni cliniche che, come succede negli atleti Master, trattava poco e male perché si curava con la “sua amata fatica”. E solo qualche anno prima si era aggiunta la diagnosi di stenosi carotidea bilaterale, con placche non emodinamicamente significative. La valutazione medico sportiva che eseguiva annualmente aveva evidenziato valori di pressione arteriosa a riposo e durante sforzo che non erano controllati dalla poca terapia che assumeva. Anche le LDL erano molto elevate ma Paolo, come quasi tutti gli atleti Master, non voleva assumere la statina perché era un “veleno che gli bruciava i muscoli”. Lo screening medico sportivo, quando è finalizzato ad escludere una patologia che potrebbe mettere seriamente in pericolo l’atleta e non a “sfornare” solamente un certificato, prevede oltre alla storia familiare, anamnesi, visita medica e stratificazione di rischio cardiovascolare anche il test da sforzo (TdS) realmente massimale e non interrotto (come purtroppo troppo spesso succede anche in ambito cardiologico al raggiungimento dell’85,1 % della frequenza cardiaca teorica massimale). Paolo era stato sottoposto ad un dettagliato screening medico sportivo e il TdS, aveva evidenziato, in completo benessere come spesso succede in questa popolazione sportiva, un marcato sottoslivellamento del tratto ST in sede infero-laterale e un sopraslivellamento del tratto ST in aVR. La tachicardia ventricolare non sostenuta polimorfa con aspetto morfologico tipo blocco di branca destro con asse superiore comparso nel primo recupero, non ha permesso di licenziare (per fortuna) l’esito di quel test come un falso positivo. Lo studio coronarografico eseguito solo pochi giorni dopo aveva sentenziato: discendente anteriore con stenosi prossimale significativa e lungo tratto di decorso intra-miocardico medio-distale malato, stenosi moderata del tratto prossimale della coronaria destra e della coronaria circonflessa. Il collega emodinamista aveva ritenuto necessario applicare due stent medicati e, terminato il suo intervento (dopo aver ottimizzato la terapia con doppia antiaggregazione, statina in associazione, ipotensivo in associazione, beta bloccante e metformina) lo aveva congedato spiegando l’alto valore del trattamento salva vita al quale era stato sottoposto: da quel momento, dal punto di vista sportivo, nulla poteva essere più come prima consigliando solo qualche passeggiata a passo svelto. La notizia, comunicata secondo Paolo in modo frettoloso, lo aveva destabilizzato e fatto cadere in un grave stato depressivo. Non assumeva regolarmente la terapia, aveva immediatamente abbandonato la dieta (che lo ha portato ad avere in qualche mese una HB glicata di 8,9%) e, scelta peggiore, aveva continuato a correre a ritmo sostenuto come non fosse successo nulla, le mezze maratone senza iscriversi, perché privo del “lasciapassare medico-sportivo”. Chi non si occupa di atleti Master potrebbe meravigliarsi dell’atteggiamento del nostro exatleta ormai un paziente. Non è bastato salvargli la vita? Nemmeno che gli sia stata riservata una terapia ad alto costo? Non può camminare invece di correre? Per Paolo, le risposte sono sempre “no”. È molto complicato in poco tempo riuscire a “tradurre” questo tipo di diagnosi. A maggior ragione, nel caso di Paolo, ex-atleta che è sempre stato bene, non ha mai avuto sintomi e si è sempre divertito correndo. Forse, le maratone erano l’unica ragione di vita: stravolgergli l’assetto sportivo diventava intollerabile… Nel frangente delicato e perfino tragico che sta attraversando la nostra sanità pubblica, la storia di Paolo potrebbe stonare; tuttavia, sono più che persuaso che il ruolo del medico non si esaurisca nella diagnosi e nel trattamento, ma che invece comporti una comunicazione in grado di favorire la piena consapevolezza del paziente. Per raggiungere un simile obiettivo non basta informare del nuovo stato clinico. La vera e completa informazione medicoscientifica consiste nell’accompagnare il paziente “dentro” il nuovo programma di cura. Così, oltre ad avere un impatto prognostico favorevole, si potrà evitare di vanificare il tanto lavoro e impegno economico necessario per diagnosi e terapia. Dunque, ecco qual è il ruolo fondamentale di un Centro di medicina e cardiologia dello sport con esperienza nella gestione di soggetti affetti da cardiopatia ischemica cronica. Proporre una stratificazione del rischio post procedura di rivascolarizzazione, valutare se i target terapeutici sono stati raggiunti e, se così non fosse, ottimizzare la terapia in atto. Inoltre, eseguire un test da sforzo in terapia necessario, in questo caso, a valutare se le aritmie ventricolari sono ancora presenti e che solo fino a pochi giorni prima lo aveva masso in pericolo, se la risposta pressoria sia controllata dalla terapia e definire le frequenze cardiache allenanti. Solo dopo tutto ciò, sarà possibile definire insieme al paziente, quale possa essere l’allenamento migliore da eseguirsi in sicurezza. Un quadro procedurale che non avrà il solo obiettivo di rendere il paziente più “felice” e probabilmente più aderente alla terapia, ma avrà un impatto prognosticamente favorevole che si sommerà alla terapia farmacologica. È proprio per questo che il programma di training prescritto con queste modalità è in classe di evidenza 1 A. Così ci siamo tutti impegnati con Paolo. E nella verifica al termine della valutazione clinica, i due bravi specializzandi con cui il caso era stato condiviso hanno sottolineato l’importanza della corretta e completa presa in carico del paziente. Per riuscirci, appunto, non bastano le procedure diagnostiche altamente sofisticate e i trattamenti di ultima generazione, ma risulta fondamentale la comprensione della storia, delle esigenze e dello stato emotivo del paziente. La consapevolezza “biunivoca” fa sempre e comunque la differenza…

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