Ognuno fin da bambino ha sentito parlare di razze, soprattutto degli animali, ma anche degli uomini. Nel progredire degli studi egli ha poi imparato che le prime hanno una loro precisa classificazione senza critiche interpretative, tranne, dopo Darwin, quelle sulla teoria evolutiva e le sue conseguenze etico-filosofiche. Mentre le seconde, le umane, sono sempre state oggetto di discussione: alcuni presumono la loro effettiva esistenza e la difendono con dati più o meno scientifici, altri, meglio impegnati socialmente e con argomentazioni altrettanto valide, le ritengono superate e quindi inesistenti. Di tutto ciò stanno ancora disquisendo gli etologi, i biologi, i filosofi, ma più ancora i politici da quando le popolazioni meno progredite sono entrate nella storia e nella competizione con le popolazioni a civiltà avanzata.
Le razze umane sono state grossolanamente distinte in bianca o caucasica, comprensiva delle molte mediterranee e delle varie orde barbariche provenienti dal nord; la negra o africana, che si è evoluta, si fa per dire, in nera da quando i bianchi hanno tolto la gi della segregazione schiavistica; la gialla o cino-mongolo-giapponese; l’indiana del mondo buddista; e dopo Colombo la india, con le sue molte sottospecie dai Maya agli Incas e ai Pellerossa; per chiudere, dopo le più recenti conquiste occidentali, con gli aborigeni degli ultimi continenti esplorati. In conclusione, e scusandomi della superficialità nell’elencarle e distinguerle, le razze umane rimangono ancora un concetto che tenta di districarsi fra certe nozioni scientificamente documentate, le molte tradizioni storiche e il bisogno di unitarietà sociale e religiosa. Il tutto purtroppo non senza appassionate disquisizioni accademiche, lotte e guerre.
Nel mio veneto-contadino, che amo per la sua inveterata saggezza, accumulatasi durante secoli di “dominion” della Serenissima Repubblica, nei quali, pur privato sia della “liberté-egalité-fraternité” che di poter entrare nel patriziato che la governava, ha maturato un lungo progresso di meditazione, che modestamente si potrebbe paragonare al monachesimo medievale. Durante il quale il concetto di razza si è configurato in una mezza burla, lasciando ad ognuno la libertà di prenderlo come meglio gli conviene, sia seriamente che come uno “stavo scherzando”. Infatti, partendo dal nome razza, che in veneto si dice “rassa”, nome a sua volta indicativo anche dell’anatra, il palmipede simile all’oca per il becco, le zampe e l’andatura ondulante, che nei malati di artrosi dell’anca gli ortopedici definiscono anserina (dal latino anser=oca), ne deriva che la “rassa” assomiglia all’oca ma non è l’oca. E giocando sulla apparente superiorità fisica dell’oca sull’anatra si è concepito l’adagio “rassa no xe oca”. Il quale vorrebbe far capire anche ai meno acculturati che se uno è stupido o intelligente, avendone i presupposti nei suoi ascendenti, ciò che in medicina si definisce asse ereditario, lo diviene appunto perché la “rassa non è l’oca”. Con le dovute eccezioni, si capisce, causate sia dalle variabilità cromosomiche che dal possibile detto latino “pater nunquam”.
Non si può non rilevare che l’indubbia grossolanità di quel proverbio veneto contadino racchiude in sé una finezza, degna della massima attenzione. I due volatili domestici che sono stati messi a confronto, pur assomigliandosi come ho detto per certe note fisiche e, se vogliamo, anche per il grosso fegato che i gourmet francesi ne hanno fatto una fiorente industria, entrambi tuttavia non brillano per una loro esaltazione formale degna dei documentari TV, sono dei semplici animali da cortile, ben diversi ad esempio dai galli cedroni e dalle aquile. L’oca addirittura, più alta dell’anatra, imponente e dal collo alla Modigliani, è spesso citata per la sua stupidità e configurata nella bellona-oca del paese. Quindi una serie di connotazioni che nella meditata saggezza della povera gente vuol significare che certi attributi apparentemente nobili, ai quali l’uomo spesso si attacca per trovarseli specchiati sull’acqua come Narciso, non reggono al confronto con le effettive mille varianti del bello e del buono, ossia con la vera armonia della natura, quei valori che spaziano oltre l’egocentrismo. Come il “tu solingo augellin venuto a sera del viver che daranno a te le stelle”.
In fondo, a ben guardare e prescindendo dalla parola razzismo, che come tutti gli ismi rimesta nel torbido, le razze intese quali diversità fra gli umani indubbiamente ci sono, ma la scienza ne ha cambiato il nome perché studiandone la genetica ha visto che tutto è già codificato in quelle microscopiche elissi che definiamo cromosomi. Gli stessi che hanno anche gli animali, ma più differenziati e tali da distinguere decisamente la pecora dal leone. Mentre nell’umano, prescindendo dai santi e dai loschi, cambiano solo certi particolari: il naso, la rima oculare, la statura, il colore della pelle, ma non il pensiero e nemmeno il loro sviluppo o regressione. È incredibile, ma il tutto sarebbe stato accettato senza troppi distinguo se non ci fosse quella stupida melanina, un banale pigmento, il cui etimo viene da nero non da nobile, che cambia radicalmente il colore della pelle in certe popolazioni.
Le dame del settecento si proteggevano la candida pelle con l’ombrellino, quelle del novecento cercano invece l’abbronzatura, calibrata secondo le molteplici creme. I conquistatori delle Americhe centro-meridionali si sono mescolati volentieri sia con le donne indie dalla pelle ambrata che con quelle nere dal portamento slanciato, dando origine ai molti meticci e mulatti; quelli invece del Nordamerica, più schizzinosi e convinti che il colore della pelle sia collegato alla sostanza grigia, hanno cacciato-segregato i pellerossa e “appartato” i neri, dando la stura al razzismo moderno e alle lotte fra le opposte visioni o, meglio, prevenzioni.
Se ne sono resi conto non solo i politici degli USA e del Sudafrica nella loro difficile convivenza bianco-nera molto, ma anche i medici che nelle riviste scientifiche, quali il prestigioso New England Journal of Medicine, stanno tentando una chiarificazione, proprio sul solco delle conoscenze genetiche. Che per alcuni non giustificano le distinzioni socioculturali molto contestate, per altri invece ne sarebbero la dimostrazione. La medicina sportiva, ad esempio, ha cercato di vedere nelle migliori prestazioni dei neri in certe discipline come la maratona, la pallacanestro e la boxe, così come nella loro scarsa attitudine al nuoto, al tennis, al ciclismo e prima di Tiger al golf, la prova di una diversità razziale. In effetti vi sono osservazioni scientifiche sulla diversa qualità dei muscoli e delle ossa che documenterebbero il divario fra gli uni e gli altri. Si è anche constatato che il cuore dei neri si ingrossa più facilmente e che l’ECG mostra alcune varianti rispetto a quello dei bianchi.
Addirittura, alcuni sofisti dell’avere tanta o poca melanina hanno rilevato che gli ipertesi africani o afro-americani, ossia neri, sono più sensibili a certi farmaci per abbassare la pressione arteriosa e anche agli anticoagulanti per curare la fibrillazione atriale. Come se questa diversità di risposta alle terapie non fosse una caratteristica che ogni medico verifica da sempre tra i suoi malati bianchi. Ma i difensori della razza, o meglio della poca melanina, si attaccano a tutto e si sono perfino sperticati a vedere nei neri una minore capacità di concentrazione e di sincronia, che sarebbero prerogative dei bianchi, i quali invece difettano di quelle nere. Ma poi fortunatamente sono arrivati i Carnera, i Nino Benvenuti e i Tiger Woods a sparigliare il tutto. Per non parlare dei Nelson Mandela, dei Martin Luther King e dei Barak Obama. Preceduti, dobbiamo riconoscerlo, dal perfetto “Indovina chi viene a cena stasera”, però ci vuol altro!
Questa lunga diatriba razziale, animata da ragioni biologiche, sociali e politiche, continua a scandagliare nell’epidemiologia dei vari popoli nella speranza di trovare una sentenza definitiva che convinca tutti, anche coloro che la vorrebbero contraria. Specie da quando il mondo si è fatto più piccolo nella possibilità di analizzarlo e di confrontare nelle diverse popolazioni. In Circulation di aprile 2021 il gruppo di Aniruddh Patel del Massachusetts General Hospital di Boston ha valutato i fattori di rischio e le malattie cardiovascolari nelle popolazioni sudasiatiche, dal Pakistan alle Maldive, comprensive di un quarto della popolazione mondiale, e li ha messi a confronto con quelli europei. Il rischio di quei popoli durante l’osservazione di 11 anni è risultato doppio di quello nostrano. In particolare, il diabete incideva per un 23% in più, l’ipertensione arteriosa per un 42%, mentre spiccavano le obesità di pancia e la maggiore quantità di calcio delle coronarie. Si osservarono differenze anche fra quelle stesse popolazioni, il Bangladesh più sfortunato del Pakistan e dell’India, e con la riproduzione di tali differenze tra i migrati in Canada. Insomma, un puzzle che non dava certezze a nessuna delle due teorie, genetica e razzista.
In conclusione, le razze ci sono sotto vari aspetti morfologici, non tali però da differenziare i buoni dai cattivi, o da non vedere la loro evolutività in meglio e anche in peggio per tutti, secondo l’ineffabile adagio veneto di “rassa no xe oca”, che tra il serio e il faceto è più vicino alla verità di quanto non lo siano le spericolate analisi su chi vive oggi, diverso da come era ieri e da come sarà domani.
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