Crimini e malattie: metodo clinico e metodo investigativo poliziesco a confronto

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Crimini e malattie: metodo clinico e metodo investigativo poliziesco a confronto

Introduzione
a cura di Giuseppe Di Tano

L’improvvisa scomparsa di Claudio Rapezzi ha suscitato sorpresa, sgomento e tanta tristezza in tutta la comunità cardiologica.
Chi lo ha conosciuto, lo ha frequentato o ha solo avuto l’opportunità di ascoltare una sua relazione sa della sua profonda cultura cardiologica e delle sue solo apparentemente impreviste associazioni o rimandi trasversali, spesso interdisciplinari, che rendevano stimolanti ed illuminanti i suoi interventi.
La rubrica “Cardiologi Scrittori” è nata per ospitare brani-racconti scelti dagli Autori.
Ci è sembrato invece doveroso per questo numero, sceglierlo noi e proporre uno storico manoscritto dello “scrittore” Claudio Rapezzi, a quasi 20 anni dalla prima pubblicazione sul Giornale Italiano di Cardiologia del 2003, allora Italian Heart Journal Supplement.
Il tema è sui legami e le analogie tra la malattia ed il crimine, tra il metodo investigativo dei più noti detective della letteratura ed il metodo clinico, uno degli argomenti a cui teneva maggiormente, più volte riproposto anche su prestigiose riviste internazionali.
In sintesi, una serie di preziose riflessioni e indicazioni su come adottare nei nostri comportamenti clinici un approccio mentale analitico e critico, su come valorizzare le possibili incongruenze evitando percorsi gerarchici indotti solo dalla tecnologia, e così sfuggire il “sonno della ragione”.
Per i lettori più giovani e per chi lo avesse perso, è un’occasione per scoprire o riscoprire l’elevato spessore intellettuale di Claudio, per noi una occasione per rendere un affettuoso omaggio ad un amico, indiscusso gigante della Cardiologia clinica.

Questa breve riflessione si sviluppa a partire da due considerazioni.
In un’epoca della medicina caratterizzata dal ricorso sempre più sistematico e routinario alle tecnologie diagnostiche, il ragionamento medico appare in crisi. Il rischio, oltre che di spendere una quantità eccessiva di denaro pubblico e privato e di rendere approssimativo l’iter diagnostico è anche quello di perdere il piacere intellettuale che è insito nel ragionamento diagnostico.
Le analogie ed i richiami incrociati fra medico e detective, fra crimine e malattia sono abbondantemente presenti nella letteratura, nel cinema e nella televisione. Il paragone ed il richiamo più frequente è quello a Sherlock Holmes identificato come alfiere del metodo “logico-deduttivo”. In realtà non solo la medicina ma anche il romanzo poliziesco registra una continua evoluzione. Nuove figure letterarie e nuovi metodi investigativi si sono succeduti negli ultimi decenni, spesso embricandosi.
Una breve riflessione sulle analogie fra il ragionamento diagnostico in medicina ed i metodi investigativi della letteratura “gialla” potrebbe contribuire alla “causa” del metodo clinico1,2.

Le analogie

Gli aspetti comuni alle due discipline sono numerosissimi (Tab. I).
Innanzitutto il periodo storico e la classe sociale di riferimento. Il poliziesco vive il suo momento di grande splendore nella seconda metà del XIX secolo, nel clima di fiducia nelle illimitate possibilità della scienza.

Tab. I – Romanzo poliziesco e metodo clinico.

Nello stesso periodo la medicina registra l’affermarsi del più classico dei paradigmi indiziari quello imperniato sulla semeiotica medica, la disciplina che consente di diagnosticare le malattie “interne” e quindi inaccessibili all’osservazione diretta attraverso la valorizzazione di “segni” che, insignificanti agli occhi del profano, possono essere decifrati soltanto dall’esperto e lo conducono alla diagnosi finale.
Il detective e il medico entrano in azione davanti al turbamento di uno stato di quiete, del corpo ammalato o del tessuto sociale minacciato dal crimine. Se il medico è colui che indagando i segni del male cerca di scoprirne la causa e di ripristinare l’originario stato di benessere, l’investigatore individua, isola e distrugge il criminale, cioè quella sorta di vero e proprio agente patogeno dell’ordinata convivenza civile in grado di minare l’ordine costituito e la certezza nei poteri di controllo dello stato.
Ma medicina e romanzo poliziesco sono collegati anche da rapporti strettamente letterari nonché da uno scambio (letterario) di ruoli. La storia della letteratura poliziesca è ricca di figure di medici: medici che indagano in prima persona, che affiancano i detective professionisti come esperti (in genere anatomo-patologi), medici assassini e medici vittime. Per non parlare dell’ampio bagaglio tecnico medico-scientifico a cui gli autori classici del poliziesco hanno spesso attinto per escogitare soluzioni raffinate per delitti sempre più sofisticati.

Le qualità del detective (e del clinico) ideale ed i “modelli investigativi”

Per usare le parole che Sir Arthur Conan Doyle fa pronunziare a Sherlock Holmes ne Il Segno dei Quattro “tre sono le qualità necessarie al detective ideale: capacità di osservazione, deduzione e conoscenza”. Questa affermazione è di fatto il paradigma, il manifesto ideologico di tutta la letteratura poliziesca, a forte matrice anglosassone, che si sviluppa fra la fine dell’800 ed i primi del ’900, impersonata dai detective classici dell’epoca aurea del “giallo”: Auguste Dupin, Sherlock Holmes, Miss Marple, Hercule Poirot. Se queste tre caratteristiche continuano a rappresentare i pilastri fondamentali del ragionamento investigativo per tutti gli anni successivi, emerge progressivamente nella letteratura poliziesca del ’900 l’importanza di altre due qualità: la capacità di ricostruzione psicologica e ambientale della vittima (teorizzata sia dal Maigret di Simenon sia da Padre Brown di Chesterton) e la capacità di percepire le incongruenze all’interno della scena del crimine (è il caso tipicamente del tenente Colombo di Levinson & Link) (Fig. 1). Non possono sfuggire le impressionanti analogie fra detective e clinico per quanto riguarda questo profilo di eccellenza.

Fig 1 – Le caratteristiche di un investigatore e di un medico ideali.

Per convenzione l’origine del romanzo poliziesco viene fatta risalire al 1841, anno di pubblicazione dei Delitti della Via Morgue di Edgar Allan Poe. In più di un secolo e mezzo le tecniche investigative adottate dalle centinaia di figure di detective più o meno conosciuti e popolari sono numerosissime ma in fondo riconducibili a 4-5 modelli fondamentali di ragionamento. L’identificazione dei modelli fondamentali consente di classificare, anche se in modo approssimativo, personaggi ed autori della letteratura “gialla” (Tab. II). Più che succedersi nel tempo o rappresentare modalità di ragionamento mutuamente esclusive, i modelli si sono in realtà embricati e sommati, così che in singoli detective è di fatto riconoscibile più di una caratteristica dominante. Al lettore attento non possono sfuggire le analogie con la storia del pensiero medico e del metodo clinico.

Tab. II – Modelli investigativi nel romanzo poliziesco dal XVII secolo ad oggi.

Capacità di osservazione e di ragionamento logico. Sherlock Holmes impersona il prototipo, quasi la caricatura, di questo modello. Nonostante il suo metodo venga generalmente descritto come “deduttivo”, in realtà Holmes non pratica né la deduzione (inferenza di una conoscenza particolare da una regola di carattere generale) né l’induzione (il percorso contrario, dal caso particolare alla regola generale), bensì l’abduzione3. L’abduzione è il processo di formazione di ipotesi esplicative. È l’unica operazione logica che introduce una nuova idea, in quanto l’induzione non fa appunto che determinare una regola e la deduzione sviluppa le conseguenze necessarie di una pura ipotesi. La deduzione prova che qualcosa deve essere, l’induzione mostra che qualcosa è realmente operativa, l’abduzione suggerisce che qualcosa può essere e che quindi probabilmente è (Tab. III).

Tab. III – Il ragionamento “logico”.

L’osservazione di Holmes riguarda non solo i fatti e gli eventi visibili ma anche la loro assenza. L’evidenza negativa è considerata spesso altamente significativa.
L’esempio classico è l’episodio di quando Holmes, che sta cercando un cavallo da corsa scomparso, viene così interrogato dall’ispettore Gregson: “c’è qualche altro punto su cui volete attirare la mia attenzione?”, “il curioso episodio del cane di notte”, “il cane non fece nulla durante la notte”, “questo è lo strano episodio”, osservò Holmes.
Molti degli aforismi di cui sono costellati i romanzi ed i racconti di Conan Doyle si adattano perfettamente anche al mondo medico e alla vita in corsia e potrebbero essere pronunciati da un qualsiasi clinico con un certo grado di “ipertrofia dell’ego” (Tab. IV).

Tab. IV – Il metodo di Sherlock Holmes.

Nella storia della medicina del mondo occidentale la scoperta e la valorizzazione dei segni è relativamente recente. Il fascino e la grande popolarità dei “segni patognomici” elaborati dai grandi anatomo-clinici del ’700 e dell’800 (Laennec, Auenbrugger, Trousseau, Austin-Flint, Cheyne-Stokes, ecc.) sta proprio nella convinzione (a posteriori un’illusione) di poter diagnosticare con precisione pressoché assoluta la “sede interna” della malattia a partire dai “segni esterni specifici” che la denunciano.
Nel processo di formazione individuale che inizia con il Corso di Laurea in Medicina, la ricerca dei segni patognomonici è spesso il primo approccio metodologico ad essere insegnato. Solo in una fase successiva della propria formazione il medico impara non solo ad amare la semeiotica ma anche a conoscerne i limiti ed i falsi miti.
Analoghe considerazioni valgono per la semeiotica strumentale. La ricerca dei “segni diagnostici” è comune infatti alla lettura di tutte le metodiche indipendentemente dal loro contenuto tecnologico. Ma ancora una volta i limiti ed i falsi miti incombono. Si tratta non solo di limiti personali legati alla scarsa esperienza del singolo clinico, alla scarsa confidenza con le nuove tecnologie o all’oggettiva difficoltà di lettura dei segni, ma anche di limiti strutturali, cioè filosofici. È il paradosso rappresentato dalla teoria Bayesiana, in altri termini l’approccio probabilistico alla diagnosi. Nel momento di massima sofisticatezza delle tecnologie diagnostiche e di massima fiducia “neopositivista”, la comunità scientifica prende consapevolezza del fatto che non solo la bontà del ragionamento e la potenza della metodica nello svelare i segni ma anche la prevalenza della malattia nella popolazione studiata determina l’accuratezza diagnostica finale del metodo, sia esso clinico o tecnologico. Non è legittimo dire che la malattia (ad esempio l’ischemia miocardica reversibile) è o non è presente alla luce della metodica applicata; è possibile semplicemente stabilire di quanto la probabilità pre-test che la malattia esista venga ad essere incrementata dal fatto che un determinato segno è stato svelato grazie all’applicazione del metodo (la probabilità post-test).

Cultura. Se è vero che un certo grado di cultura generale e di conoscenza specifica della casistica è necessario per qualunque indagine, in alcuni investigatori tale qualità si ipertrofizza e tende a rappresentare il principale se non l’unico strumento di soluzione del caso. Nero Wolfe ad esempio (chi è nato prima degli anni ’70 non può non ricordare la superba interpretazione televisiva di Tino Buazzelli con Paolo Ferrari nella parte del fido Archie Goodwin) evita qualsiasi contatto diretto con la realtà esterna. Pur rimanendo all’interno del suo appartamento newyorkese a coltivare orchidee, la sua conoscenza della casistica criminale e la sua cultura generale sono tali da consentirgli la soluzione di pressoché tutti casi, fermo restando il ruolo del collaboratore Archie Goodwin, unico tramite con la realtà esterna.
Anche nel mondo medico esistono comportamenti analoghi. La tentazione di vicariare la scarsa propensione alla pratica clinica diretta con un ricorso sistematico a Internet e a Medline non è rara, anzi è decisamente in crescita, purtroppo senza produrre in genere gli stessi risultati di Nero Wolfe.

Capacità di ricostruzione psicologica e ambientale. Il caso emblematico è quello di Maigret. Il commissario creato da Simenon non ha apparentemente un metodo scientifico di indagine. Egli si immerge letteralmente nel mondo della vittima sino alla immedesimazione fisica e psichica. Per usare le parole del commissario l’importante è “lasciarsi impregnare dall’atmosfera, mettere a fuoco l’immagine del morto” e soprattutto stabilire con quest’ultimo una sorta di “sconcertante intimità”. Così, ne Il Defunto Signor Gallet, a chi gli chiede: “Lei sta indagando sull’assassino o sulla vittima?”, Maigret risponde con lucida pacatezza: “Saprò chi è l’assassino quando conoscerò bene la vittima”.
Un altro aspetto qualificante dell’attività investigativa di Maigret è l’attenzione quasi maniacale che il commissario dedica all’interrogatorio del presunto colpevole. Sono proverbiali in quasi tutte le inchieste del commissario i lunghi interrogatori notturni che si chiudono generalmente all’alba con la resa dell’assassino e con un’abbondante colazione alla birreria Dauphine (indimenticabile l’interpretazione televisiva di Gino Cervi sotto la regia di Mario Landi nell’insuperata TV in bianco e nero degli anni ’60).
Nella storia della medicina l’importanza attribuita al colloquio anamnestico ha conosciuto fasi alterne. Per tutto il XVIII secolo i medici basarono le loro diagnosi prevalentemente sulle dichiarazioni verbali dei pazienti. Dato che nelle nosologie di quel secolo le malattie erano catalogate per sintomi, i pazienti potevano riferire i loro sintomi a voce o anche per lettera, per cui la visita clinica (di fatto la diagnosi) poteva tranquillamente avvenire per via epistolare. Nell’arco dell’800, progressivamente, l’anamnesi incomincia ad articolarsi in un protocollo fisso sotto forma di interrogatorio, in altri termini in una sequenza ordinata di domande precostituite con sempre meno spazio alle libere dichiarazioni e interpretazioni del paziente.
Ognuno di noi ha conosciuto Maestri o colleghi particolarmente abili a “tirar fuori” dal colloquio clinico gli elementi fondamentali per la diagnosi. Si tratta di un’abilità personale quasi artistica, solo in parte purtroppo trasmissibile agli studenti e ai collaboratori.

Capacità di cogliere le incongruenze. Il tenente Colombo, creatura letteraria di Levinson & Link resa popolare attraverso l’interpretazione televisiva di Peter Falk, ha una particolare abilità a percepire le incongruenze (ciò che non va o che stona) nella scena di un crimine. Che cosa ha a che fare quella dozzinale marca di Champagne in camera da letto della vittima con il contesto ricco e raffinato della sua personalità? È molto probabile che si tratti di una messa in scena e che quindi la prima impressione non sia quella vera!
Che cosa ha che fare questo elettrocardiogramma con voltaggi normali o addirittura ridotti con la diagnosi di cardiomiopatia ipertrofica che l’ecocardiogramma mi offre con apparente sicurezza? Probabilmente niente! Sono pertanto costretto a riconsiderare le mie pseudocertezze e a ripartire con una nuova ipotesi che mi porterà forse verso la diagnosi di amiloidosi cardiaca.
Sembra semplice, ma la capacità di percepire e valorizzare le discrepanze interne presuppone il pieno possesso culturale del “modello” diagnostico di riferimento e rappresenta quindi un mix di capacità di osservazione, ragionamento logico, conoscenza e fantasia abduttiva; in altre parole un punto molto avanzato nella scala di evoluzione del clinico.

Azione, ostinazione, intraprendenza; ovvero dal Giallo al Noir. A partire dagli anni ’30-’40 prende forma un genere letterario (Noir nell’accezione francese, Hard Boiled in quella americana) in cui il gusto per il fine ragionamento logico lascia il posto ad altre caratteristiche dominanti: azione, tenacia, intraprendenza, ostinazione, disincanto e disillusione, utilizzo indiscriminato di tutte le risorse disponibili (inseguimenti, intercettazioni, confessioni estirpate con la violenza, ecc.). Philip Marlowe e Sam Spade (indimenticabili le interpretazioni cinematografiche di Humphrey Bogart) sono le indiscusse “icone” di tale genere4.
Volendo a tutti i costi perseguire le analogie con il mondo medico, l’ufficio dell’investigatore privato “Hard Boiled”, fumoso e trascurato che lascia intravedere dalla finestra l’asfalto bagnato della città violenta, può ricordare la guardiola di un caotico ospedale metropolitano dove un clinico annoiato, distratto e demotivato “spara” a 360 gradi richieste di esami strumentali senza una precisa ipotesi diagnostica da perseguire, nella speranza che prima o poi qualche diagnosi finisca nella rete.

La clinica come arte e scienza dell’investigazione

Come nel caso dell’investigatore, anche in quello del clinico “ideale” si realizza o si dovrebbe realizzare una fusione armonica fra tutti i modelli investigativi delineati in precedenza. Questa evenienza è però decisamente rara! La ricerca di questo sincretismo metodologico è continuamente minacciata dal rischio di esasperazione di una logica astratta, oppure di un compiacimento “psicologista” che conduce ad immergersi nella vita personale del paziente, oppure di abdicare dal ragionamento a favore della ricerca bibliografica, oppure di rinunciare a formulare ipotesi di lavoro per attivare acriticamente tutte le tecnologie diagnostiche possibili.
Se c’è una singola caratteristica che identifica il clinico maturo è la sua capacità, una volta formulato un orientamento diagnostico, di percepire le eventuali discrepanze fra i singoli rilievi clinici e strumentali, valorizzando non solo ciò che c’è ma anche ciò che manca e quindi di ripartire correggendo l’errore. Per lui la clinica non è, all’interno dell’iter diagnostico, semplicemente ciò che attiene all’anamnesi e all’esame obiettivo, bensì la capacità di stabilire collegamenti trasversali fra i singoli esami ed i vari rilievi semeiologici per ricercare congruenze e incongruenze. In questo contesto non esiste una gerarchia di valori imposta dalla tecnologia per cui gli esami semplici valgono meno di quelli complessi e costosi. L’elettrocardiogramma che fa mettere in discussione la diagnosi di cardiomiopatia ipertrofica offerta dall’eco può “valere” di più della tomografia ad emissione di positroni o della risonanza magnetica.

Ringraziamenti

A Ernesto Labriola, Bruno Magnani, Sergio Dalla Volta, Angelo Branzi e Mario Sanguinetti, per l’ispirazione ed i suggerimenti.


Bibliografia

  1. Rapezzi C. Camici bianchi e impronte digitali: analogie fra ragionamento diagnostico in medicina e metodo investigativo nel romanzo poliziesco. Sic et Simpliciter 2002; 4: 18-21.
  2. De Cataldo G, Pomes T. Camici bianchi e impronte digitali. La medicina nella letteratura gialla. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 1992.
  3. Eco U, Sebeok TA. Il segno dei tre, Holmes, Dupin, Peirce. Milano: Bompiani, 1983.
  4. Giovannini F. Storia del Noir. Roma: Castelvecchi Editore, 2000.

Fonte

  • Ital Heart J Suppl 2003;4:415-19

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