In corsa… Per la diagnosi

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In corsa… Per la diagnosi

Lo screening medico cardiologico sportivo deve rappresentare una tappa fondamentale per la diagnosi precoce delle patologie potenzialmente a rischio di arresto cardiaco durante sport

Sport e arresto cardiaco: ridurre l’evento morte a volte non può essere sufficiente

Quando un atleta si esprime nella gestualità tecnica, lo spettacolo per chi ne ammira le movenze è affascinante. Il gesto atletico è un cocktail di forza, resistenza, potenza, destrezza: tutte qualità fisiche che vengono miscelate in modo diverso in base alla disciplina sportiva, ma sempre avvolte in una eleganza “invidiabile”. Purtroppo, come un fulmine a cielo sereno, può capitare che questo spettacolo si interrompa improvvisamente. Senza nessun segno premonitore, il gesto atletico diventa goffo, le gambe sembrano andare al rallentatore, i piedi faticano a staccarsi dal suolo, il tronco si piega sulle gambe e il corpo che solo pochi secondi prima era una “elegante forza della natura” tonfa al suolo senza dare più segno di vita. Chi stava ammirando lo spettacolo (che si frantuma in pochissimi secondi) rimane senza parole. Com’è possibile? L’opinione pubblica non si aspetta e non riesce ad accettare che un atleta abituato a compiere grandi imprese sportive, diventando icona di successo ed entrando nella vita quotidiana dei fan, possa accasciarsi e davanti ai “riflettori” morire improvvisamente. L’arresto cardiaco o nella peggiore delle evenienze la morte improvvisa (MI) di un atleta è sempre un evento tragico: devasta famiglie, atleti, istituzioni, medici e comunità. Per cercare di ridurre i casi di morte improvvisa, in Italia sin dal 1982, è stato organizzato un sistema di screening medico e cardiologico sportivo sostenuto dal Sistema Sanitario Nazionale ed obbligatorio per legge. Nel 2003 Corrado et al. dimostrarono come il “modello italiano” aveva ridotto di quasi il 90 % le MI nello sport agonistico, grazie all’identificazione e all’esclusione dei soggetti affetti da cardiomiopatie o aritmie considerate a rischio. Il grande entusiasmo iniziale è stato seguito però da momenti meno “felici” perché si è continuato, sbagliando, a correlare l’efficacia dello screening esclusivamente alla riduzione dell’evento morte. Per questo motivo in alcuni Paesi come Israele la valutazione sistematica degli atleti è stata interrotta, perché sembrava aver poco influito sul numero di eventi mortali, senza preoccuparsi, al contrario, se la valutazione proposta agli atleti fosse stata in grado di permettere diagnosi precoce di malattie cardiovascolari potenzialmente a rischio di MI. Infatti, lo screening non ha la finalità principale di prevenire l’evento morte ma, attraverso un protocollo di indagini diagnostiche applicate su vasta scala, di identificare in una ampia popolazione i soggetti con una patologia in fase precoce prima che si manifesti con sintomi, segni o, nelle peggiori delle ipotesi, con la MI. Abbiamo imparato in quarant’anni di storia della medicina e cardiologia dello sport italiana come gli atleti affetti da alcune cardiomiopatie possono andare incontro ad arresto cardiaco da sforzo con una frequenza maggiore rispetto ai non atleti. Oggi possiamo affermare con relativa certezza che la cardiomiopatia ipertrofica, la cardiomiopatia aritmogena, le anomalie coronariche (per citarne alcune) sono le patologie killer. Quello che è ancora difficile prevedere è quali siano i pazienti più a rischio e soprattutto, purtroppo, se e quando possa verificarsi l’evento mortale. È proprio per questo che deve essere usata la massima cautela quando ci troviamo a gestire exatleti oramai pazienti affetti da tali patologie. Proviamo a pensare quanto abbiamo imparato in questi ultimi anni sul rischio di arresto cardiaco da sforzo nei soggetti affetti da cicatrici non ischemiche del ventricolo sinistro. Proviamo ad immaginare se Andrea Pinarello, terzo genito del compianto “Nane” Pinarello (famosa maglia nera al giro d’Italia del 1951 e notissimo costruttore delle bici più vincenti al mondo, la Dogma-Pinarello), avesse deciso di abbandonare il ciclismo agonistico nel luglio del 2012 non prendendo parte alla prima tappa del Giro del Friuli, competizione riservata ad atleti Master, che avrebbe preso il via nell’agosto dello stesso anno. E di conseguenza immaginiamo anche che un approfondimento cardiologico (eseguito subito dopo il suo stop sportivo, per un riferito cardiopalmo durante una “sgambata” lungo le colline del Montello), avesse messo in evidenza la presenza di una cicatrice miocardica del ventricolo sinistro. Quale significato gli si sarebbe attribuito, visto che solo pochi mesi prima aveva percorso il Tour de France per atleti Master, la competizione più massacrante dello scenario ciclistico anche per gli atleti amatori in assoluto benessere e che le sue gambe avevano “macinato” almeno 300.000 chilometri in venti anni di carriera sportiva, ad una altissima intensità senza mai lamentare un sintomo? Probabilmente un significato del tutto aspecifico. Immagino che molti “addetti ai lavori” avrebbero licenziato quel “probabile esito di miocardite”, come una delle più banali anomalie strutturali prive di significato, solo perché la storia sportiva di quell’atleta era stata caratterizzata da grandissime performance in assoluta asintomaticità. I fatti però sono andati diversamente: Andrea ha partecipato al Giro del Friuli nell’agosto del 2012 e, subito dopo aver tagliato il traguardo della prima tappa si è accasciato al suolo ed è morto improvvisamente. La diagnosi post mortem è stata cardiomiopatia aritmogena a prevalenza sinistra. Se Andrea non avesse partecipato a quell’ultima competizione, l’evento si sarebbe mai verificato? Probabilmente no. Se quella storia, analogamente ad altre con epiloghi tragici (come quella di Pier Mario Morosini, di Marc Viviene Foè o di Antonio Puerta), non fossero mai accadute solo perché gli atleti avessero deciso di “abbandonare” il loro sport il giorno prima della “fatidica” competizione, quale significato prognostico sarebbe stato attribuito alla cardiopatia di cui erano affetti e che li ha portati alla morte? Ecco il punto: non può essere la storia del singolo paziente a dettare la “linea” da seguire, ma quello che la storia di quella patologia ci ha insegnato. Sembra che l’esperienza di 40 anni a volte sia eclissata per rincorrere il “vento liberale dell’Europa” e “contrastare” la posizione italiana di esclusione preventiva dallo sport agonistico. Si cerca, viceversa, sempre più di favorire la partecipazione allo sport agonistico di pazienti affetti da patologie potenzialmente letali ma definite a basso rischio (come era stato per esempio per Marc Foé). Scelte che sono per lo più giustificate citando studi che in un periodo relativamente breve di osservazione non hanno registrato eventi mortali, usando ricerche non costruite per valutare la mortalità in quel particolare contesto clinico. Il lavoro del medico e del Cardiologo dello sport si rivela estremamente difficile: con la sua decisione può infrangere il sogno di giovani atleti o interrompere carriere di atleti professionisti. Tuttavia, un atteggiamento troppo “liberale”, per cercare di assecondare le esigenze e il desiderio di atleti e genitori, li può esporre ad un rischio di morte. In attesa che vengano prodotti dati scientifici solidi (che permettano di stratificare correttamente il rischio di eventi negli atleti affetti da patologie potenzialmente a rischio di MI) con studi disegnati ad hoc, resta l’atteggiamento di sempre: lavorare per rendere sempre più consapevoli i nostri giovani pazienti ex atleti e le loro famiglie sui rischi correlati alla patologia di cui sono affetti e soprattutto far comprendere il vero significato della diagnosi preventiva “salvavita”.

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