La scatola nera della Fibrillazione Atriale

HomeForum

La scatola nera della Fibrillazione Atriale

Lasciatemelo dire, ma la fibrillazione atriale sta diventando un problema medico infinito, direi quasi vitale. Pressoché sconosciuta prima della Grande Guerra del ‘15-‘18 divenne via via un disturbo del ritmo cardiaco, dapprima curioso, poi pericoloso, ma anche benigno e trattabile in mille modi. Fino alla subdoleria di essere il pericolo principale nel provocare ictus, da cui la necessità di una continua attenzione e terapia. Anche quando non è più presente e recidivante con tutti i suoi sintomi e segni caratteristici, dalle palpitazioni alla difficoltà di respiro, ma inavvertito dal paziente e quindi occulto a lui e al medico. Un’evoluzione che ai giorni nostri, dopo l’evidenza delle complicazioni cerebrali, è divenuto così incombente da obbligarmi a riferire il ricordo di quando mi laureai e iniziai il mestiere di Cardiologo, appena 60 anni fa. Erano tempi in cui nei testi si scriveva che l’ictus, il cosiddetto colpo apoplettico, il coccolone toscano, era dovuto nella maggior parte dei casi a un’emorragia nel cervello e nella minoranza alla chiusura arteriosclerotica di un vaso, ossia a un infarto simile a quello del cuore. Oggi, dopo quei 60, tempo che nei secoli bui avrebbe consentito solo la scoperta di una qualche erba medicinale, tutto è cambiato: l’ictus e molti TIA (paralisi passeggere) si devono per lo più a un’embolia, cioè a un coagulino che formatosi nel cuore in fibrillazione viene lanciato nel cervello provocandogli l’infarto paralizzante o altre menomazioni, mentre i meccanismi del tempo andato (emorragia e trombosi) sono divenuti quasi una rarità, grazie alle nuove terapie. Oggi dobbiamo constatare che la fibrillazione atriale è aumentata del 23% nell’ultimo decennio e lo sarà molto di più nei prossimi anni, visto l’allungamento della vita e la persistenza dei fattori favorenti. Non si tratta però di vecchia ignoranza e di nuove scoperte, poiché i riscontri diagnostici e le autopsie si facevano anche allora, 60 anni fa. Sembra incredibile, ma si tratta invece di come sia venuta cambiando la nostra vita con il trattamento delle malattie cardiovascolari e del cancro. Il controllo continuo della pressione alta, delle insufficienze cardiache, i pacemaker, i bypass, gli stent, i trapianti, le ablazioni i defibrillatori, nonché le guarigioni dei tumori, sono tutti responsabili dell’allungamento della nostra vita. E grazie a quei rimedi dobbiamo in parte la ripulitura dei fattori che rompevano o incrostavano le arterie cerebrali, ma anche della comparsa dell’aritmia “senile”, la fibrillazione atriale. Insomma, più vita senza ipertensione, diabete, infarti e inciampi vari, ma anche più vita per diventare fibrillanti. Non mi soffermerò di certo sull’aritmia come tale e sulla sua ben nota capacità di generare le embolie. In molti articoli scientifici se n’è scritto e anche la stampa di divulgazione se ne sta progressivamente occupando, non foss’altro per interpretare le crisi politiche o economiche come fibrillazioni della società e dei personaggi più o meno accorti nell’affrontarle. Ma intendo solo ricordare che questo disturbo del ritmo, sempre più frequente nei senescenti, non solo va sorvegliato quando compare con tutto il suo travaglio delle crisi, ciò che costringe spesso al pronto soccorso, ma anche quando si verifica per brevi momenti, magari percepiti dal paziente come semplici extrasistoli o addirittura silenti, e verificabile dal medico solo con l’Holter. Numerosi studi di questi casi di “passeggere” e occulte fibrillazioni hanno riferito che le embolie e gli ictus accadono purtroppo anche in loro, rendendo quindi necessaria la profilassi con gli anticoagulanti onde prevenirle. Un’attenzione e un costo per la sanità non indifferenti. Giunti a questo punto si pensava che l’ultima attenzione clinica alle brevi e subdole fibrillazioni, quasi innocenti scaramucce dell’aritmia nei soggetti che vorrebbero vivere tranquilli il loro viale del tramonto, fosse il giusto prezzo che l’uomo e la donna devono pagare per aver cambiato così radicalmente la loro sopravvivenza, e che non ci fossero ulteriori pendenze e novità. Non avevamo però fatto i conti con gli esegeti del nostro cuore e delle sue aritmie, quelli che guardano più lontano nella patologia umana e rimangono sospesi sulle seguenti domande: perché certi atri del cuore in soggetti apparentemente normali vanno più facilmente in fibrillazione di altri? Perché al microscopio i primi mostrano alcune involuzioni che i secondi non hanno? È possibile prevedere la tendenza a fibrillare in chi all’apparenza non è cardiopatico? La risposta pare stia arrivando ancora una volta dall’elettrocardiogramma per la presenza di particolari suoi comportamenti, individuabili addirittura mentre è in atto il ritmo normale, quello che nei referti ufficiali è definito sinusale. Sarebbero una specie di barlumi della temuta aritmia, che si nasconderebbero in un “algoritmo” dell’elettrocardiogramma, valutabile però indagando il suo insieme. Gli anglosassoni lo definiscono come dovuto a un “deep neural network”, una rete neurologica occulta. Che non è rilevabile con i comuni elettrocardiografi, nemmeno quelli tecnicamente più aggiornati, ma solo da un particolare “smartphone” ideato e attuato nella Mayo Clinic dal gruppo di Zachi Attia (The Lancet, 2019), il quale ha seguito nel tempo il comportamento del QTc e di possibili interferenze dall’attivazione degli atri, ossia della sua onda P. Dovessi dire di aver capito i dettagli di questo misterioso algoritmo, che ci fa intravedere perché alcuni soggetti senza apparenti cardiopatie e in ritmo sinusale vanno facilmente in fibrillazione atriale, mentre altri ne sono immuni, ancorché magari quest’ultimi siano sportivi, abbiano salito i picchi alpestri o altre imprese, o addirittura subito insulti coronarici; direi di no, non l’ho capito. Ma mi fido degli esperti e della loro capacità di leggere quella specie di scatola nera di quell’aritmia, che si insinua fra la fisiologia e la patologia, fra la vita e il suo cammino verso la fine. Così come, a proposito dell’attività fisico-sportiva, non si è capito perché alcuni atleti giovani, normali ai controlli, possano subire la fibrillazione. Lo segnalò per primo nel 1998 Francesco Furlanello, seguito poi da altri fino alla recente meta-analisi di Newman (Br J Sports Med 2021) nella quale si discutono i numerosi possibili fattori: lo sport di resistenza, peggio se associata alla potenza; l’età inferiore ai 55 anni più che negli sportivi anziani; il comportamento ad U, cioè la minore incidenza dell’aritmia nella pratica moderata dello sport rispetto a chi non lo fa per nulla e a coloro che vi si impegnano troppo; il ruolo del sistema simpatico o vagale; la distensione degli atri all’ecocardiogramma. La scatola nera della Fibrillazione Atriale continua a rivelarci sempre nuove conoscenze, non solo quelle più recondite che entusiasmano gli esegeti dell’elettrofisiologia, ma anche quelle che coinvolgono i clinici, i medici impegnati a curare i malati, cui sorregge sempre la speranza di poter leggere preventivamente negli esami non invasivi, quali l’ECG e l’ECO, chi corre quel rischio, e più ancora di avere disponibili i farmaci per prevenirlo. Ricordando che non si può consigliare una terapia per tutti, sia per interrompere che per prevenire; il fibrillante è un malato che fa storia a sé, come lo è la sua aritmia, e va curato singolarmente; i farmaci e i comportamenti utili dello stile di vita sono troppi e troppo personalizzati per poterli elencare; mi limito a sottolineare che non vanno dimenticati la digitale e la chinidina, farmaci gloriosi per la loro storia e che mantengono intatto un loro ruolo. Naturalmente in chi lo conosce e mantiene vigila l’attenzione che il malato, come il cittadino, non è uno. “Ad ogni uomo un soldo” ricordava Bruce Marshall in un suo famoso romanzo.

Autore