Giustizia Divina

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Giustizia Divina

Proseguiamo, come anticipato nel precedente numero, con la pubblicazione dei racconti, scritti da Maria Frigerio e premiati nella 16° edizione del Premio Cronin 2023, Concorso Letterario nazionale rivolto a medici fondato dalla sezione di Savona “G. B. Parodi” della Associazione Medici Cattolici Italiani. Al racconto dal titolo “Giustizia divina” è stato assegnato il Premio Speciale “Giuseppe Moscati” relativo alla Sezione Narrativa.
Giuseppe Di Tano e Mario Chiatto

Tra gli esseri fantastici che Alice incontra nel Paese delle meraviglie, il mio preferito da bambina era il gatto del Cheshire, un grosso gatto che se ne stava appollaiato su un ramo, poi sorrideva e spariva, e dopo che era sparito ne restava per un po’ di tempo, sospeso nell’aria, il sorriso. Anni dopo pensai che di Giovanni, invece, sarebbe rimasto lo sguardo. Per noi che l’avevamo conosciuto prima del trapianto di cuore bastava dire “quello con gli occhi verdi” (il paziente con gli occhi verdi, quel signore con gli occhi verdi) per sapere che si stava parlando di lui. A quel tempo i suoi occhi, grandi per natura e resi sporgenti da un ipertiroidismo causato dal trattamento prolungato con un farmaco necessario per controllare il ritmo del cuore, risaltavano nel volto smagrito e parevano voler uscire, scappare da lì (dalla camera, da quei muri) per tornare alla sua campagna, alle sue colline, al suo orto. Ma il corpo, svuotato di muscoli e di energia dall’immobilità cui l’insufficienza cardiaca l’aveva costretto da mesi, non avrebbe potuto seguirli. Dopo il trapianto quel farmaco era stato sospeso, la funzione della tiroide si era normalizzata, e gli occhi erano rientrati disciplinatamente nelle orbite. In poche settimane Giovanni aveva recuperato peso e col tempo, purtroppo, ne aveva accumulato ben oltre il desiderabile. Con i chili in eccesso, il cortisone, e il passare degli anni, i lineamenti si erano fatti più grossolani, la palpebra più spessa e cadente, e forse per questo gli occhi si notavano di meno. O forse anche le iridi invecchiano, e invecchiando cambiano colore (quelle scure a volte sbiadiscono ai bordi, le più chiare non so). Col tempo il numero dei trapiantati seguiti dall’ospedale aumenta, e diventa difficile ricordarseli tutti uno per uno. Inoltre, da quando la documentazione clinica è stata informatizzata, il computer restituisce tutti i dati del paziente – a patto però che qualcuno quei dati ce li abbia messi, e ci vuole tempo. Più tempo si passa a scrivere e a leggere guardando uno schermo, meno ne resta per guardare in faccia i pazienti. Insomma, per una ragione o per l’altra o per tutte insieme, i nuovi medici e i nuovi infermieri non erano così sicuri che Giovanni avesse gli occhi verdi: chi li ricordava azzurri, chi azzurro- verdi, chi verdi ma anche un po’ nocciola, chi striati di giallo come quelli di un gatto, qualcuno non aveva proprio idea del loro colore. Ma siccome ciascuno di noi ricorda con i meccanismi con i quali ha imparato, per me Giovanni restava e resta il paziente con gli occhi verdi. Giovanni poteva sembrare impressionabile, emotivo e brontolone, tuttavia aveva sopportato e superato un lungo ricovero in terapia intensiva durante l’attesa del trapianto, un post- operatorio inizialmente difficile, e un primo anno punteggiato da una serie di complicazioni non sempre gravi o minacciose, ma comunque fastidiose e impegnative. Aveva resistito, non si era mai lasciato andare, non aveva mai perso la speranza: lamentarsi, brontolare -o forse, per meglio dire, protestare- era probabilmente il suo modo di reagire, di farsi forza. Avevo notato che anche nei momenti peggiori Giovanni non sembrava preoccuparsi per sé, ma difendeva principi o interessi comuni. Non recriminava per il peso della malattia e delle cure, non criticava gli infermieri se non rispondevano all’istante al suono del campanello, non si lamentava neppure del vitto dell’ospedale. Aveva invece da ridire sui ticket, sui criteri e le procedure per ottenerne l’esenzione, sulle differenze tra regioni nell’organizzazione del servizio sanitario (perché Giovanni risiedeva in un territorio che, benché al di là dei confini della nostra regione, per ragioni logistiche e per tradizione preferiva riferirsi alla nostra città, specie per le patologie più gravi e complesse; inoltre era abbastanza anziano da aver sperimentato il passaggio della responsabilità del servizio sanitario dallo Stato alle Regioni). Nei lunghi giorni del ricovero ebbi modo di apprendere che Giovanni era contrario anche all’abolizione della scala mobile, alla privatizzazione delle ferrovie e dei servizi idrici, all’equiparazione delle scuole confessionali a quelle pubbliche, e a molto altro. Quando si accalorava per la buona causa del momento Giovanni spalancava gli occhi, verdi e grandi com’erano sembravano ingrandirsi ancora di più, e mandare come dei lampi, fatti in realtà più di acqua che di fuoco, perché la luce si rifletteva su un velo sottile di lacrime che si affacciavano tra le palpebre senza varcarne il confine (lacrime, bisogna dire, non dovute all’emozione ma, più banalmente, alla particolare sensibilità alla luce dei soggetti con gli occhi chiari, che per difesa stimola la lacrimazione). A prescindere dalle mie opinioni sull’oggetto delle sue battaglie, ero contenta di vedere come la vita di fuori occupasse i pensieri di Giovanni. Non di rado le persone malate, specie se in condizioni gravi, si concentrano esclusivamente su se stesse, cosa che non aiuta a guarire più in fretta, anzi: mantenere interesse per quello che succede agli altri, a quelli di fuori, può accelerare il recupero. Per contro, occuparsi di temi generali può essere una strategia più o meno inconscia per sviare l’attenzione dalle proprie condizioni, il che può alleviare i timori e le preoccupazioni per il proprio presente e il proprio destino, a scapito però di una piena consapevolezza del sé e della propria malattia. Intorno al primo anniversario del trapianto le condizioni di Giovanni si erano stabilizzate, e per parecchi anni l’avevamo visto esclusivamente in occasione dei controlli ambulatoriali programmati. Ai quali Giovanni si presentava regolarmente con qualche chilo in più, con “L’Unità” sottobraccio, e con un’immutata tendenza a lamentarsi, o meglio a protestare. Si lamentava perché non riusciva a trovare un lavoro – essendo giudicato, a sua detta, troppo sano perché gli fosse riconosciuta un’invalidità sufficiente alla sopravvivenza, e allo stesso tempo troppo malato per competere in un mercato del lavoro affollato da soggetti più sani e più giovani di lui. Poi era stata la volta del lavoro nero, si lamentava di non aver trovato altro, ma gli sembrava ingiusto (infatti dopo un paio d’anni aveva lasciato perdere, preferiva dedicarsi al suo orto e accontentarsi della sua piccola pensione). Più avanti si era lamentato delle vessazioni che i lavoratori erano costretti a subire sotto la minaccia della delocalizzazione (come a suo dire accadeva alla figlia, operaia in una delle poche fabbriche superstiti della zona), e poi ancora delle discriminazioni di genere da cui dipendeva buona parte della disoccupazione femminile (e questo era quanto aveva capito dal racconto della nuova vicina di casa). Senza dubbio l’uomo era tornato alla vita reale, dove il politico diventa personale, e viceversa – del resto era stato giovane negli anni ‘70.
Giovanni passava da fatti e ricordi personali alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, alla Costituzione Italiana, allo Statuto dei lavoratori, citava Marx Berlinguer il papa e il segretario della CGIL del momento per poi tornare alla storia della figlia, o della sua nuova vicina, ed ecco che i suoi occhi verdi si accendevano, al punto che sembrava di vederli per un po’ anche dopo che se n’era andato, come succede con le luci che abbagliano, ti fanno socchiudere gli occhi, e ti sembra che continuino a lampeggiare dietro le palpebre chiuse. Poi Giovanni venne ricoverato per una sepsi dovuta a un’infezione delle vie urinarie. Il quadro all’inizio era piuttosto preoccupante (febbre molto alta, calo di pressione, peggioramento della funzione renale), ma fin dai primi giorni aveva dato segni di miglioramento: erano necessarie una sorveglianza accurata e una terapia complessa, non si potevano escludere ricadute o complicazioni, tuttavia ci sentivamo abbastanza ottimisti. Invece Giovanni appariva cupo, spaventato più di quanto fosse mai stato nelle settimane, quelle sì veramente difficili, che avevano preceduto il trapianto. In più, stranamente, non aveva voglia di parlare. Sembrava pessimista, negativo, o -peggio ancora- distaccato dal mondo che lo circondava, indifferente a sé e al proprio destino, come se questo fosse irrimediabilmente segnato, e fosse più conveniente abbandonarsi senza sprecare ulteriori energie.
Rispondeva a monosillabi, con voce fragile e remota, senza nemmeno aprire gli occhi. Di più: un paio di volte, entrando nella sua camera, avevo avuto l’impressione che fingesse di dormire per evitare qualunque contatto. Ero seriamente preoccupata: nei primi tempi del mio lavoro nel team dedicato al trapianto di cuore, mi stupiva il fatto che alcuni pazienti che avevano superato periodi molto duri, nei quali erano stati, consapevolmente, in serio pericolo di vita, e in più per rimanere in vita avevano dovuto sopportare cure esami e controlli anche molto intrusivi e invasivi, si dimostrassero poi deboli e impauriti di fronte a complicanze o eventi minori, che richiedevano attenzioni e controlli, ma molto probabilmente sarebbero stati superati senza danno: di colpo diventavano pessimisti, oppositivi, si faticava a convincerli ad accettare un solo esame diagnostico in più, un paio di giorni di ricovero… Un giorno, a un paziente recalcitrante alla proposta di sottoporsi a una broncoscopia, mi capitò di dire: “Certo è un esame fastidioso, ma non dura molto, le fanno l’anestesia, le danno l’ossigeno… insomma non è poi così terribile – specie a fronte di tutto quello che ha passato”. La risposta era stata fulminante: “È proprio per tutto quello che ho passato: le scorte sono finite”. Quel giorno avevo capito che, indipendentemente dal grado di soddisfazione delle sue aspettative, dalla fiducia residua nel futuro, e dal giudizio sulla qualità delle cure, la disponibilità a sopportare di un essere umano non può essere infinita. Se ne ha consumata molta, può restargliene troppo poca per affrontare difficoltà anche molto più piccole di quelle superate in precedenza. Al minimo, può aver bisogno di tempo per ricostituire le sue riserve. Però di tempo Giovanni ne aveva avuto. Doveva seguire regolarmente una terapia abbastanza complessa, ma non si poteva dire che negli ultimi anni la sua condizione fosse pesantemente medicalizzata. Doveva esserci qualcos’altro. Dopo qualche giorno, nonostante il progressivo miglioramento del quadro clinico, Giovanni continuava ad essere taciturno, passivo, depresso. Tornai a trovarlo. Stavolta dormiva davvero. Sotto il lenzuolo, il busto si alzava e si abbassava regolarmente con il respiro. Non potevo fare a meno di notare la differenza rispetto al ricovero pre-trapianto, quando era così deperito che il suo corpo sembrava non riuscire ad emergere dalla superficie del materasso.
Eppure, allora aveva trovato da qualche parte, nel suo corpo, nello spirito, o al di fuori di sé, la forza per riprendersi. E ora? Perché non ne era capace? Mentre mi domandavo se svegliarlo o uscire cercando di non far rumore, Giovanni aveva aperto gli occhi, si era guardato intorno, e aveva detto “Oh, é lei, dottoressa”. “Buongiorno”, gli dissi. “Buongiorno” rispose. Si era mezzo girato sul fianco per mettersi seduto, mentre cercava la pulsantiera che comandava i movimenti del letto, che come sempre durante la notte era scivolata dal cuscino, la sua mano destra aveva urtato qualcosa sul piano del comodino, e qualcosa era caduto per terra: era un portadocumenti di plastica blu, di quelli che si usavano per la patente o per la carta d’identità nel vecchio formato cartaceo. Lo raccolsi e vidi che conteneva le fotografie di due bambini, quello a sinistra poteva avere circa due anni, l’altro pochi mesi. Entrambi avevano i capelli scuri e gli occhi chiari, occhi verdi grandi e luminosi. “Belli,” dissi mentre gli restituivo le foto, “sono i suoi nipoti?” Giovanni teneva il portadocumenti aperto tra le mani giunte, i pollici incrociati, come i fedeli in chiesa tengono il libro delle preghiere. Lo sguardo oscillava da un bambino all’altro, e gli occhi si erano riempiti di lacrime. “Questo é mio nipote”, disse rivolto al bimbo ritratto nella foto a sinistra, “e questo …” tirò su col naso, accennò al piccolino della foto a destra, inspirò profondamente, e con un filo di voce esalò “… questo é mio figlio”. Le lacrime accumulate sull’orlo della palpebra inferiore cominciarono a traboccare. Era la prima volta che vedevo Giovanni piangere per davvero. Spostai la sedia accanto al letto e mi sedetti ad ascoltare. Quando aveva smesso di lavorare in nero, Giovanni si era dedicato al suo orto, poi anche a quello dei vicini di casa (due anziani, a detta di Giovanni, all’epoca ultrasessantenne): lo faceva per passione, gli davano qualcosa giusto a Natale Pasqua e Ferragosto e solo se si ricordavano, se ne avevano la possibilità. Dopo il matrimonio della figlia, Giovanni e sua moglie, rimasti soli in casa, avevano dovuto ammettere che il loro matrimonio non esisteva più. La moglie era andata a vivere con sua madre in un paese del nord Europa. Quando la figlia dopo il parto era tornata al lavoro, Giovanni si era dato disponibile a occuparsi del nipotino: passavano molto tempo all’aperto, il nonno si sedeva sotto l’albero, prendeva il bambino sulle ginocchia e gli leggeva una storia, lo guardava cercare lombrichi nella terra e gli lavava le mani con il tubo per innaffiare prima della merenda, aveva spianato il vialetto che collegava l’orto alla casa perché non cadesse dal triciclo. Poi l’anziano vicino era morto, la vedova si era trasferita in città, e al loro posto era arrivata una giovane coppia. Passata qualche settimana, e avendo visto che il loro orto era del tutto trascurato, Giovanni si era presentato ai nuovi vicini, offrendosi di riprendere il suo lavoro di manutenzione. Così si erano conosciuti. Ma mentre l’uomo non si vedeva quasi mai, andava al lavoro la mattina presto e tornava verso sera, lei (la donna, la signora – la sposina, come la chiamava Giovanni) stava a casa, e per quanto avesse da fare per tenerla pulita, fare la spesa e cucinare, di tempo libero gliene restava. E quel tempo libero sempre più spesso si incrociava con il tempo di Giovanni: avevano cominciato a parlare, e un po’ alla volta tra loro era nata una certa confidenza, una simpatia, poi un affetto, un’attrazione, e poi… Poi lei era rimasta incinta, e in qualche modo si era allontanata da lui. Il marito si era presentato una sera sulla porta di casa di Giovanni per dirgli che da lì in avanti dell’orto si sarebbero occupati i suoi genitori, venuti dal sud per aiutarli in vista della nascita del bambino. (In effetti gli era capitato di vedere questa coppia più o meno della sua età affaccendarsi nell’orto). Lei usciva raramente di casa, e sempre accompagnata da qualcuno.
L’aveva vista da sola una volta soltanto, qualche settimana prima della data prevista per il parto. Non avevano avuto molto tempo. Gli aveva detto che era stata una gravidanza difficile, per mesi aveva dovuto stare ferma il più possibile, per non perdere il bambino. Non le interessava sapere se il padre fosse Giovanni o suo marito, che comunque non aveva intenzione di lasciare, e che sperava non dubitasse della paternità. Temeva però che sospettasse qualcosa, perché con il procedere della gravidanza sembrava più asciutto, distaccato, quasi che il bambino lo riguardasse sempre di meno. Giovanni non aveva potuto replicare. Lei gli aveva posato la mano sull’avambraccio, gli aveva dato una leggera stretta. Aveva abbassato la voce: “Dimmi solo che tutto andrà bene. Prega che vada tutto bene”. Non l’aveva più vista, non l’aveva sentita, non aveva saputo nulla del bambino. Dal giorno che erano andati in ospedale per il parto la villetta dei vicini sembrava disabitata.
Qualche settimana dopo era arrivato un furgone, e due uomini avevano cominciato a portar via i mobili. Giovanni, appoggiato alla recinzione, era rimasto a guardare finché uno dei due traslocatori si era avvicinato, l’aveva squadrato dalla testa ai piedi, e gli aveva detto “Cos’hai da guardare, vecchio? Non tornano, e tu non la cercare”. Una minaccia? Un avvertimento? Era rientrato in casa. Con il passare dei mesi aveva cercato di convincersi che tutto andasse bene, per lei e per il bambino. Che il piccolo fosse davvero figlio del marito, e che quell’uomo non coltivasse sospetti. Che ancora si volessero bene, insomma. Almeno, che vivessero in pace. Stava cominciando a dimenticare. Poi sul telefonino gli era arrivata quella foto, inviata da un numero che non conosceva e che avrebbe chiamato per per mille e mille volte, senza mai ricevere risposta. E più guardava quella foto, più scrutava quel faccino rotondo con la fossetta sul mento, il ciuffo di capelli lisci che sfuggiva dall’orlo del cappellino, gli occhi verdi e luminosi, più era sicuro che quello fosse il suo bambino, suo figlio, il figlio maschio che in gioventù aveva sempre desiderato e non era arrivato. Adesso invece esisteva, e adesso che esisteva era chissà dove, lontano da lui. Perché era così sicuro che fosse suo figlio? Prima di tutto per gli occhi verdi: nella famiglia della donna, e a detta di lei anche in quella del marito, erano tutti neri (che nel linguaggio di Giovanni significava che avevano i capelli e gli occhi scuri). Poi c’era dell’altro: quel bambino di cui non sapeva neppure il nome era identico alle vecchie fotografie di lui, di Giovanni, da piccolino. Le avesse avute lì da potermele mostrare, sicuramente gli avrei dato ragione, aveva detto.
Da quando aveva ricevuto la fotografia Giovanni si era convinto di essere il padre di quel bambino, ed era disperato. Non riusciva a smettere di pensare di aver sbagliato, di aver rovinato la sua e altre vite, per quello sbaglio. Sì, era stato un errore generare un figlio che non poteva vedere né toccare, cui non poteva parlare né scrivere. Ma mai, in nessuna circostanza, avrebbe potuto considerare un errore l’esistenza di quel bambino. Eppure era il piccolo che rischiava di pagare le maggiori conseguenze: se quell’uomo dubitava di esserne il padre, il bambino e la madre potevano avere una vita difficile – addirittura, avrebbero potuto essere in pericolo. Giovanni si sentiva colpevole, pensava di meritare di essere condannato e punito, ma essere deprivato per sempre del figlio e al contempo immaginarlo infelice era una punizione peggiore della morte. Quando gli era venuta la febbre (febbre alta con dolori tremendi alla schiena, nausea, capogiri, e difficoltà a urinare) aveva creduto che fosse arrivato il momento: il momento della punizione, dell’espiazione -ma anche dell’uscita, della risoluzione. Se a questa corrispondeva la morte era disposto ad accettarla, come se fosse stata decretata da una giustizia superiore, dal verdetto di un Dio nel quale aveva smesso di credere dall’adolescenza, quel Dio che non aveva saputo pregare quando lei glielo aveva chiesto, ma che ora si trovava a invocare, suo malgrado, perché portasse a compimento quel che era cominciato. Ma Giovanni alla fine era un uomo concreto, capace di capire la realtà. Per la prima volta da quando aveva cominciato a raccontarmi questa storia mi guardò dritto negli occhi e disse: “Invece mi sa che non muoio neanche stavolta, vero, dottoressa?” Annuii. “Era meglio se morivo,” disse distogliendo lo sguardo. “Non per sua figlia e suo nipote,” replicai, “e neppure per le nostre statistiche”. Mi accorsi subito di aver fatto un errore, ma cos’altro avrei potuto dire per offrirgli una via d’uscita? Avevo fatto un rapido schema nella mia mente, mi era chiaro che c’erano cose da non dire assolutamente (esempio: “Se fosse lei a fargli da padre, quel bambino rimarrebbe orfano più presto”), cose che forse avrei potuto dire ma in fondo non erano così importanti (esempio: “a quell’uomo conviene trattare il bambino come figlio suo, diversamente tutti sapranno che la moglie gli ha preferito un altro”), o che sarebbero potute tornare utili in altre circostanze (tipo “se proprio vuole scoprire dove si trovano, potrebbe provare a sentire un investigatore privato”).
Perché la figlia e il nipote, che almeno erano persone vere, non solo fotografie, e che contavano su di lui, non bastavano a smuoverlo, a fargli desiderare di guarire, di uscire di lì, come pensavo che sarebbe dovuto accadere? Nei pazienti con insufficienza cardiaca che definiamo estrema o refrattaria, abbiamo imparato che i farmaci che stimolano la capacità contrattile del muscolo cardiaco possono perdere di efficacia, non essendo più in grado di migliorare la funzione del cuore, e a volte addirittura peggiorandola: in queste circostanze, continuare a somministrarli é come frustare un cavallo caduto a terra, stremato dalla stanchezza. Forse rischiavo di fare, su un altro piano, qualcosa di altrettanto inutile se non potenzialmente dannoso: probabilmente non aveva più senso far leva sulle sue responsabilità nei confronti della figlia e del nipote, quando già si sentiva carico di un peso insostenibile. La frase sulle nostre statistiche, poi, proprio non avrei dovuto dirla.
Era stata una leggerezza, un tentativo maldestro di attenuare la tensione, ma anche quella frase lo richiamava a una responsabilità, la cosiddetta responsabilità sociale dei riceventi di un trapianto, che dovrebbe indurli a voler sempre vivere il più a lungo possibile… (Ma seppure mossi dalle migliori intenzioni, davvero ci possiamo illudere di essere capaci di governare la volontà altrui? E, ammettendo di esserne capaci, questo basterebbe a rendere giusto il farlo?). Guardai Giovanni ma lui non mi guardava. Non guardava neppure le fotografie. Si era sdraiato di nuovo, teneva gli occhi aperti e guardava il soffitto. Gli occhi, pensai. Gli occhi verdi. “Si sieda, Giovanni. Mi ascolti. Le voglio spiegare una cosa.” Così quel giorno, in quella stanza d’ospedale, passai mezz’ora a spiegare a Giovanni i rudimenti dell’ereditarietà, cosa sono i geni dominanti e quelli recessivi, e come si trasmette il colore degli occhi. Per concludere che un uomo e una donna con gli occhi scuri, con i genitori i nonni e tutti i parenti di cui vi sia memoria pure con gli occhi scuri, lo stesso possono mettere al mondo un figlio o una figlia con gli occhi chiari – se il gene “occhi chiari” dopo aver viaggiato lungo la discendenza materna coperto, mascherato, dominato dal suo corrispettivo “occhi scuri”, si abbina finalmente a un altro gene “occhi chiari” che fino ad allora aveva avuto il suo stesso destino nella discendenza paterna. (Invece non può accadere il contrario: tutti i figli di due persone con gli occhi chiari avranno gli occhi chiari). Quindi, ammesso che la foto ne restituisse fedelmente il colore (cosa neppure del tutto sicura), e ammesso che il colore si fosse già stabilizzato (cosa pure opinabile: il colore degli occhi può cambiare, generalmente virando verso tonalità più scure, nel corso del primo anno di vita), ammesso dunque che davvero il bambino avesse gli occhi verdi, questo non significava che dovesse essere sicuramente figlio di Giovanni, e soprattutto non escludeva che potesse essere figlio del marito della donna. Quanto alla somiglianza dei lineamenti con quelli di Giovanni da piccolo, ero sicura che lui stesso neppure l’avrebbe notata, se non fosse stato influenzato dal colore degli occhi. Quando sono così piccoli, i bambini possono assomigliare a chiunque vogliamo credere che assomiglino, per verificarlo basta sentire le opinioni dei parenti del lato materno e di quello paterno di un qualunque bambino. A ripensarci, a distanza di anni, ancora mi meraviglio che alla fine avesse funzionato. Quello che non mi era riuscito evocando gli affetti familiari e la responsabilità sociale, l’avevo ottenuto con il linguaggio della scienza. Del resto non ero e non sono uno psicologo né un filosofo né un confessore, ma solo un medico. Le regole della trasmissione del colore degli occhi erano qualcosa di provato, di oggettivo, di vero, rappresentavano una certezza sulla quale gli uomini concreti, gli uomini con i piedi nella realtà come Giovanni, potevano contare. Quelle semplici regole avevano dato a Giovanni l’appiglio di cui aveva bisogno per uscire dalla trappola della certezza di una paternità impossibile da agire, una condizione per lui insopportabile al punto che era arrivato a pensare di preferirle la morte, e lo avevano riportato nella regione del dubbio. Il dubbio, l’incertezza, gli erano più tollerabili, un po’ come il purgatorio a confronto con l’inferno. Del resto lui stesso ammetteva di meritare una qualche forma di punizione: non sarebbe stato facile, ma almeno gli sarebbe stato permesso di immaginare un ventaglio di eventualità (quell’uomo era un padre affettuoso, lui avrebbe dimenticato, lei sarebbe potuta tornare…), qualche prospettiva, un’evoluzione, insomma. Giovanni era stato dimesso dopo una settimana, era venuta a prenderlo la figlia. Il nipotino, troppo piccolo per entrare in corsia, li aspettava nell’atrio. Appena aveva visto il nonno gli era corso incontro e gli si era avvinghiato alle gambe, lui l’aveva sollevato fino all’altezza del suo viso, gli aveva detto qualcosa in un orecchio ed entrambi si erano messi a ridere. Mi domandai cosa sarebbe successo di lì a un anno, quando quel bambino sarebbe andato alla scuola materna, ma per il momento andava bene così. Non c’è da meravigliarsi se la scienza, che pure riteniamo oggettiva, talvolta porta più incertezze che certezze. Perché è nell’incertezza che si aprono nuove possibilità, da cui potranno derivare nuove ricerche che produrranno nuove verità e nuove certezze. (Il che significa anche che alcune certezze della scienza, alla lunga, si possono rivelare provvisorie. Questo però, quel giorno, pensai fosse meglio non dirlo a Giovanni).

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