Dal letto alla letteratura: medici che scrivono troppo, o troppo poco?

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Dal letto alla letteratura: medici che scrivono troppo, o troppo poco?

Chi di noi ammalandosi seriamente, non vorrebbe trovare un senso, dignità, parole giuste e giusti silenzi? Uno scrittore, in pratica

Come tenere un dolore tra personaggi in cerca di dottore

Vivere e prescrivere
Perché tanti medici vogliono scrivere, perché non si limitano a prescrivere? Luigi Pirandello diceva “la vita o si vive o si scrive” e tuttavia il medico, diversamente da altri professionisti e artisti, ha il dono di camminare sul bordo vertiginoso tra la vita e la scrittura, tra la biologia e il logos. La medicina è fatta di storie, è congenitamente narrativa. Un uomo col suo male può essere vasto come un romanzo o fulminante come un haiku. Dall’anamnesi in poi, fino alla guarigione o all’exitus, tutte le trame sono possibili. Se il malato è un personaggio in cerca di dottore, il medico, più o meno consapevolmente, è uno (nessuno e centomila) scrittore in preda a un demone: osserva, ascolta, deve dare un nome alle cose e non può curare se non comunica con parole esatte. È chirurgia: il linguaggio è il tavolo operatorio dove il chirurgo può disporre di tutti i ferri: fonemi, lessemi, sintagmi, morfemi pronti per essere articolati in un suono riparatore. Si entra sempre dalla pelle (anche il timpano è fatto di un sottilissimo pellame). La lingua è taglio e sutura, per smontare e rimontare ipotesi e molto altro. Cuori per esempio, scombinati come cubi di Rubik lasciati in mano a un neonato. Nessuno vuole davvero, volontariamente farci del male. Ma come dirlo? Oltre a cultura, tecnica, fantasia, intelligenza emotiva ed empatia, ciò che davvero accomuna uno scrittore a un medico è la curiosità, che allo stato puro non può essere disgiunta, lasciatecelo dire, dall’amore. Solo così la curiosità diventa, con pienezza morale e coerenza etimologica, cura. Il medico deve curare prima di tutto sé stesso. Per farlo, dopo aver riflettuto sull’epigrafe di Pirandello, dovrebbe applicare quella di Goethe: “Un’occhiata ai libri, due alla vita”.

La realtà è scadente
La vocazione narrativa serve non solo per ascoltare storie, ma per inventarle. Infatti, il medico che racconta al paziente la malattia e riporta ai colleghi lo stesso caso clinico, o una ricerca, deve farlo come un bravo scrittore. Senza pedagogie, moralismi, mistificazioni; con onestà, che non coincide con la verità nuda e cruda. Con le mie orecchie ho sentito un luminare dei trapianti rispondere, al malato che gli chiedeva della febbre che non passava “è iatrogena e paraneoplastica”, senza altre spiegazioni. La buona letteratura non è vera, è verosimile. Se prendessimo un dialogo qualsiasi della nostra vita vera di tutti i giorni e lo mettessimo così com’è in un romanzo ben scritto, rimarremmo stupiti da quanto suonerebbe falso e scadente. Nell’ultimo film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio, il protagonista, un giovane presto ferito dalla vita, aspirante regista (uno scrittore per immagini), dice: “La realtà è scadente”. Quindi, niente trucchi da due soldi: il medico come lo scrittore deve raccontare la verità nel modo meno “vero” e più elegante possibile, evitando chiacchiere consolatorie e sermoni edificanti. Chi di noi ammalandosi seriamente, non vorrebbe trovare un senso, dignità, parole giuste e giusti silenzi? Uno scrittore, in pratica. Chi non vorrebbe tra gli spari e il sangue sentire quel scion scion di Morricone così irreale e perfetto, credendo di essere dentro a un sogno, un libro, un film? Alla fine del nostro tempo grandioso e miserabile vorremmo essere come Robert De Niro nel finale di C’era una volta in America: stesi in una fumeria d’oppio con quel sorriso infantile e immemore che, nell’istante decisivo, saluta per sempre la consapevolezza e la sensibilità che tanto ci hanno dato, altrettanto tolto (Figura1).

Figura 1 – Robert De Niro

Scrivere non è un passatempo
Anton Cechov, un medico-scrittore eccelso, amava dire: “la Medicina è la mia sposa, ma il vero amore lo faccio con la Letteratura, la mia amante” (Figura 2). Non sono scappatelle, ma relazioni pericolose e molto, molto dispendiose. Comunque la mettiamo, una questione di letto. Medicina e scrittura pulsano di storie insonni, vivono di guardie eterne senza smonto. Il tormento dei mediciscrittori è più morale che fisico: è la colpa cronica del traditore che mentre scrive non ausculta e mentre ausculta non scrive. La lista degli adùlteri è nutrita e oltre a Cechov tra i più famosi si elencano Louis Ferdinand Celine, Michail Bulgakov, Arthur Schnitzler, John Keats, Arthur Conan Doyle, Archibald Joseph Cronin, W. Somerset Maugham, William Carlos Williams. Non mancano italiani come Carlo Levi, Mario Tobino e il contemporaneo Andrea Vitali; non a caso Achille Mario Dogliotti, pioniere della scuola cardiochirurgica torinese, passato alla storia per l’invenzione dell’omonimo valvulotomo per commissurotomie mitraliche, nel 1951fondò l’AMSI, non già Amici Mitrali Stenotiche Infiammate, bensì l’Associazione Medici Scrittori Italiani.
Scrivere è una fatica boia.
Chi ha passato un intero pomeriggio chiuso in una frase per togliere una virgola (e magari rimetterla il giorno dopo) lo sa. Quante altre cose si sarebbero potute fare: con una brugola al posto di una penna e di un’idea si arreda una casa Ikea. Quanto sole, quanti aperitivi e amici e figli persi. La pagina è uno spietato bianco, una parete verticale come il Nanga Parbat d’inverno. Ma ecco che, quasi assiderati, mentre malediciamo Lei e noi stessi, arriva l’istante: gli sci scorrono da soli in un fatato pendio dolomitico e noi ci sentiamo, perdonati (anche questa ultima virgola mi è costata un pomeriggio e forse non ci stava, o forse sì).

Figura 2 – Anton Cechov

Tenere un dolore
Il dolore è un potente propellente narrativo. “Lo tieni un dolore? La tieni una cosa da raccontare?”. Così, sempre nell’ultimo film di Sorrentino, un cineasta affermato scuote il giovane aspirante regista. E aggiunge: “Non ti disunire Fabio”. Vale a dire, il dolore non si può emettere così com’è, in un grido disarticolato: va tenuto, con-tenuto, compresso e poi sublimato con un immane sforzo termodinamico. Dove c’è vita c’è entropia e l’arte sta da quella parte. Come chimica, la narrativa è fatta di relazioni. Il medico deve conoscerle, nominarne i nomi con precisione. Il malato ha storie, odori, legami e sentimenti esclusivi che si possono conoscere solo con interazioni narrative. Le parole curano perché i pensieri battono gli stessi sentieri neuronali di molti farmaci, specialmente analgesici. Le parole circolano nel sangue e se sono sbagliate intossicano.
Ne La lezione di anatomia di Philip Roth, uno scrittore di successo lotta con un dolore cronico e a un certo punto si mette in testa di diventare medico, un “umanista interno”, perché pensa: “I medici ogni giorno parlano seriamente con 50 persone bisognose. Bombardati di storie dal mattino alla sera, e nessuna inventata da loro […] storie che hanno uno scopo chiaro e pratico: guariscimi […] che privilegio stare 40 ore alla settimana tra incidenti d’auto. Di moto. Cadute. Ustioni. Ictus. Infarti. Overdose […]. Questo sì che è lavoro. Ti dimentichi di te stesso”. Il benedetto oblio, ecco il punto di incontro tra medicina e letteratura: il medico, lo scrittore, il lettore (e il malato, anche il medico prima o poi sarà a sua volta un malato), occupandosi delle vite degli altri dimenticano la propria. Vivendo altre vite, entrando in altri corpi dimenticano la ferita, tenendo e con-tenendo un dolore. Certe storie poi, distraggono da malattie peggiori. Anche nella più infelice storia d’amore, una malattia con tutte le carte in regola, rimane una consolazione: nel finale di Un amore di Dino Buzzati, il protagonista riconosce alla malattia il merito di averlo almeno distratto dalla morte.

Solitario e bianco finale
Roth si era ammalato di empatia per i medici nel corso della sua lunga storia clinica conclusasi nella terapia intensiva cardiologica del Presbyterian Hospital di New York, dopo una dozzina di stent coronarici, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco (Figura 3). Roth invidiava i medici immuni dal terrore della pagina bianca, ladri di storie che possono nascondersi nei camici (se vedete medici e scrittori distratti mentre ascoltano le vostre storie è perché stanno pensando a come riciclarle). Ecco come Roth descrive la bianca solitudine delle pagine e dell’ospedale: “Anche quando fai il medico sei solo. Quando ti chini su un paziente nel suo letto, sei entrato in un complicatissimo rapporto specialistico che sviluppi nel corso degli anni con la pratica e l’esperienza, ma alla fine anche così, sei sempre solo con te stesso, sai? Solo con i limiti… la memoria, il tuo stile, la tua intelligenza, i tuoi sentimenti, le tue osservazioni, le tue sensazioni, la tua comprensione non basta mai”. Ecco, non basta mai. Un medico non è mai soddisfatto, proprio come uno scrittore. Per quanto bravo, la morte è sempre lì che lo guarda. È anche per questo incompiuto, questo male d’infinito che si mette a scrivere. È così dannatamente vicino al segreto… a volte gli sembra di afferrarlo e di poter sospendere le leggi naturali, di spostare la notte più in là. Dice Celine, il più maledetto tra i mediciscrittori, in Viaggio al termine della notte: “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte”. Una scheggia affrettata che intanto ferisce, illumina, e deve essere maneggiata con cura. Scrivete dottori, scrivete pure perché voi, maledetti curiosoni che non siete altro, sapete meglio di tutti tenere e curare quel bagliore.

Figura 3 – Philip Roth

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