Mentre riflettevo sulla vita dura del mediano, l’analogia con il mio lavoro da medico dello sport è stata immediata
La vita da medico dello sport “anomalo”: studio approfondito, umiltà ma consapevolezza delle proprie competenze senza paura riverenziale
In copertina: il calciatore italiano Gabriele Oriali al Football Club Internazionale Milano nella stagione 1971-72. Fonte: Wikipedia
Ogni mattina, mentre vado al lavoro, mi lascio accompagnare dalle note delle diverse tracce che riempiono la mia playlist. Dai ritmi dei Modà alla forza di Vasco, dall’energia contagiosa di Lorenzo Jovanotti, alle poesie cantate di Gio Evan, alla delicatezza del piano di Tony Ann. L’altra mattina è stata “Una vita da mediano” di Liga a tracciare la strada per me. Mentre guidavo, riflettevo su questo testo che mi ha sempre colpito molto. Chi ama lo sport comprende bene il significato profondo di questa fenomenale metafora della vita. La canzone è veramente universale perché, attraverso i riferimenti al calcio, richiama valori che fanno parte del nostro vissuto quotidiano: perseveranza, spirito di sacrificio, sofferenza e risultato. “Una vita da mediano” si rivolge, nel contesto calcistico, a Lele Oriali; tuttavia, il testo lascia spazio a diverse interpretazioni. In sostanza, si fa riferimento all’ “operaio” dello sport, sia uomo che donna. Sforzo, sudore, fatica e sofferenza hanno un’unica finalità: essere al servizio di qualcun altro. “Una vita da mediano, da chi segna sempre poco, che il pallone devi darlo a chi finalizza il gioco”. L’attaccante non dovrebbe mai dimenticare quanto siano importanti i polmoni del mediano; senza di lui, vagherebbe nell’area di rigore ad aspettare la palla che potrebbe non arrivare mai. Lui ha bisogno del suo mediano. E il mediano lo sa bene, ma è anche consapevole che difficilmente verrà “illuminato” dai riflettori, non riceverà applausi, non si godrà il successo in prima persona. Deve correre, corre più degli altri per “recuperare” palloni e, come canta Liga, dopo tanto sforzo dovrà necessariamente passare la palla. In quasi ogni sport c’è il suo “mediano”: il gregario nel ciclismo, la lepre in atletica, il libero nella pallavolo, il pilone nel rugby. Il lavoro “oscuro” dei tanti “mediani” non è evidente, ma la vittoria in un grande giro, un record, il taglio del traguardo per primo o la sofferta mèta non sarebbero mai stati realizzati senza il loro impegno. E, ironia della sorte, la fatica sembra non finire mai: i “mediani” devono sempre rincorrere per complimentarsi e festeggiare chi è riuscito a fare goal o a tagliare per primo il traguardo. Mentre riflettevo sulla vita dura del mediano, l’analogia con il mio lavoro è stata immediata. Cosa c’entra il mediano con il medico dello sport? Secondo me, le corrispondenze sono molte. Sono medico dello sport fin dal 1996 con le implicazioni cliniche conseguenti. Purtroppo, nel corso degli anni, la figura del medico dello sport è stata confinata quasi esclusivamente al rilascio di certificati di idoneità per lo sport agonistico. Tutto qui. Non “serve” per le diagnosi. Lo hanno imparato tutti, anche gli atleti. Non si consulta il medico dello sport per capire se c’è un problema. No, dal medico “sportivo” (definizione che non riesco a tollerare) ci si presenta soltanto per ottenere il tanto agognato certificato. Se questa visione si è consolidata, la mia generazione ha grandi responsabilità. Le Scuole di specializzazione, all’epoca, non son riuscite secondo me, a tracciare un profilo adeguato del medico dello sport. Era una novità assoluta. L’idea comune si limitava, appunto, a far combaciare la valutazione medico-sportiva esclusivamente con la concessione del “lasciapassare” alla pratica sportiva. Inizialmente, tutti erano convinti che fosse l’unica strategia per ridurre la mortalità legata allo sforzo fisico. I risultati sembravano rafforzare questo genere di impostazione. L’errore è stato perseverare in questa visione. Non si è mai compreso fino in fondo che il medico dello sport non si occupa solo di certificati, ma soprattutto di screening. Il significato di quest’altra prospettiva è universale: controllo sanitario eseguito su una popolazione o su singoli gruppi o categorie per consentire la diagnosi precoce di determinate malattie e condizioni patologiche. Ecco il vero significato del lavoro del medico dello sport: la diagnosi precoce. Di fronte a un sospetto di patologia, dopo la valutazione medico-sportiva (che include la storia anamnestica, l’ECG, l’esame clinico e il test da sforzo) si procede con l’indagine utilizzando l’ecocardiogramma, ulteriori test da sforzo e l’Holter. Successivamente, quasi sempre si “passa la palla” al cardiologo, diventato via via “il cardiologo dello sport”. È lui che si occupa di approfondire i dubbi sorti durante lo screening. Se continuassimo con la stessa metafora della canzone di Ligabue, il gol sarebbe la diagnosi della patologia a rischio di arresto cardiaco. E il cardiologo dello sport diventa il vero finalizzatore. Forse, è per questo che mi è sembrata naturale la specializzazione in Cardiologia. Quello che mi ripeto ogni giorno è una piccola grande certezza. Se la cardiologia dello sport in Italia è tanto cresciuta, al punto da ispirare i colleghi europei a seguirne l’esempio, il merito va attribuito al lavoro del medico dello sport. Quando vengo invitato come relatore ai congressi di cardiologia dello sport, prima di gonfiarmi il petto, dovrei pensare: “Attenzione, qui non ci saresti se l’altra parte di te non avesse resistito alla tentazione di lasciare un lavoro che stanca, che annoia e sembra non avere senso”. Non solo, dovrebbe anche essere chiaro che il 95% degli argomenti trattati in tutti i congressi di cardiologia dello sport sono il frutto del lavoro dello screening. Invece, troppo spesso questo aspetto clinicoscientifico viene dimenticato. I “riflettori” sono puntati altrove. La mia parte di cardiologo dello sport non avrebbe ragione di esistere senza il duro lavoro del medico dello sport, le tante valutazioni di routine, accompagnate raramente dalla sensazione adrenalinica della diagnosi. Sospettare una patologia potenzialmente mortale che si nasconde nei meandri più nascosti del cuore di 3-5 atleti ogni 1.000 valutati si rivela estremamente difficile. Mai distrarsi, potrebbe costare caro. In questi anni sembra essere passato tutto in secondo piano, largo ai finalizzatori. Il vero problema è: perché continuare a passare la palla all’altra parte di me? Perché non mi sento abbastanza preparato? O è solo per “comodità”? Lasciare agli altri i casi più “ostici”? Perché si è sempre fatto così? Questo è il nocciolo della questione, merita una riflessione approfondita anche da parte dei giovani colleghi medici dello sport. Per fortuna, grazie a diverse collaborazioni con alcune Scuole di specializzazione italiane, ho l’opportunità di confrontarmi con molti giovani colleghi che scelgono anche il nostro Centro di Treviso per la loro formazione. Il confronto è importante ed è un’occasione costante di crescita personale. Tuttavia, trovo ancora troppo spesso lo stesso atteggiamento di fronte a un dubbio. Prima di pensare alla diagnosi, l’interrogativo cruciale resta lo stesso: “Sarà idoneo o no? Dovremmo chiedere una consulenza?” Questo atteggiamento, secondo me, va cambiato a tutti i livelli del sistema. Non molto tempo fa, ho sentito un giovane direttore di Scuola di specializzazione in medicina dello sport definire il medico dello sport come un “medico certificatore”. Non so se abbia causato più disagio o rabbia. A Treviso abbiamo riflettuto molto sul ruolo del medico dello sport come “mediano” ma anche come finalizzatore. E perché no? Ognuno con il suo ruolo, ma con la necessità di crescere senza timore riverenziale. Abbiamo disegnato grazie all’esperienza di tutti un nuovo profilo di medico dello sport: studio approfondito, umiltà ma consapevolezza delle proprie competenze. Screening, approfondimenti, confronto con i colleghi cardiologi, diagnosi precoce e soprattutto non abbandonare il giovane paziente ex-atleta a sé stesso. È anche per questo se il Centro è stato riconosciuto come “Centro di riferimento regionale per lo sport nei giovani con cardiopatia”. A questi pazienti dobbiamo una risposta sull’attività fisico-sportiva che possono praticare nonostante la cardiopatia a rischio di arresto cardiaco. Chi potrebbe fornirla se non un medico dello sport “anomalo”? Anche i veri “mediani” si dimostrano “anomali”, come Giovanni Bosi, classe 1969, con 450 partite da professionista in varie squadre, tra cui anche il Bologna. L’ho incontrato a Treviso nel 1999: ero il medico della sua squadra. Correva dal primo minuto, aveva fiato da vendere, recuperava continuamente palloni che servivano a costruire il gioco per la squadra. Passava ogni palla recuperata. Anche a costo di vomitare dalla fatica, non mollava mai il trequartista che ogni domenica il mister gli assegnava cercando così di spegnere il gioco avversario. Nel 2001, durante la partita Treviso-Pisa, salta in cielo fino a superare le torri dei difensori centrali avversari e di testa segna il goal della vittoria. Dimenticavo: Giovanni è alto 170 cm. Lo sport insegna che tutto è possibile, basta volerlo intensamente.