Due giovani medici in soggezione davanti ad un cattedratico
Giambattista Vico, filosofo e storico del diciottesimo secolo, ridotto ad un indirizzo
«Dove abitate?». «Vico Giambattista, 25». Ormai non mi meravigliavo, avevo spesso ricevuto questa risposta da qualche altro paziente. Giambattista Vico, filosofo e storico del diciottesimo secolo, ridotto ad un indirizzo. Il consulto a “vico Giambattista” era stato chiesto dalle sorelle di Vincenzo Perone, il vicesindaco del paese, e sia il suo medico curante che io, al tempo suo cardiologo di fiducia, non potevamo sottrarci. Vincenzo, anzi don Vincenzo come rispettosamente veniva chiamato da tutti, aveva una grave insufficienza respiratoria, conseguenza, ahimè, soprattutto dell’incalcolabile numero di sigarette fumate da oltre mezzo secolo. Era stato contattato il direttore della Pneumologia di uno degli ospedali più importanti di Napoli in ambito cardiorespiratorio, il Professor Antonio Clasi. Il luminare si faceva un po’ attendere, perciò, per accelerare i tempi, il più giovane della famiglia, automunito, si offrì di prelevarlo presso la sua abitazione e riaccompagnarlo dopo il consulto. Don Vincenzo viveva ormai da qualche mese tra letto e poltrona, perennemente collegato ad un bombolone di ossigeno. Di fronte a lui un comò dove, su una tovaglia, erano accumulate boccettine di gocce, pillole, sciroppi, fiale, apparecchio per aerosol, garze, cotone, alcool, fazzolettini di carta, bicchieri di plastica, bottiglie di acqua naturale. Ai suoi piedi, pala e pappagallo. In attesa del Professore toccò al curante e a me “prepararci” al consulto. Decidemmo pertanto di organizzare una sintesi della pluriennale sofferenza del paziente e delle terapie sino a quel momento adottate. «Mettiamo ordine tra i farmaci», diceva il collega, «da una parte gli antibiotici assunti, dall’altra i mucolitici, poi i preparati per l’aerosol». «E anche i referti», aggiunsi io «elettrocardiogrammi, radiografie del torace, un diario dei parametri vitali». «Il cortisone io lo nasconderei, evitiamo di fargli vedere che lo abbiamo somministrato». Ero perplesso, ma riconobbi che, forse, date le condizioni del paziente, peraltro affetto anche da un diabete piuttosto grave e da una ipertensione non facilmente controllabile dalle terapie che, nel tempo, avevo suggerito, poteva essere giusto evitare di annoverarlo tra i farmaci somministrati, magari la cosa non sarebbe stata condivisa dall’illustre. E venne il giorno del consulto. Il Professor Clasi era alto, austero, elegante, al suo ingresso la Signora Maria, moglie dell’infermo, lo accolse con deferenza immediatamente liberandolo del paltò di Loden e di cappello e guanti. Mentre si preparava il caffè, che il Professore accettò precisando: «Poco zucchero, grazie», il mio collega, supportato ogni tanto da qualche mia incursione sui dettagli più aderenti alle mie competenze, snocciolava storia clinica, esibiva referti e terapie adottate. Il Professore fece qualche domanda al povero don Vincenzo, palesemente intimorito da tanta autorevolezza, esaminò il cuore, percosse con mani delicate il torace sia davanti che dietro, fece pronunciare il fatidico “trentatrè”, tirò fuori un fonendoscopio dorato e, nel silenzio generale, auscultò un respiro che appariva rumoroso anche agli astanti lontani. Infine, dopo avere sorseggiato il caffè, rivolgendosi ai presenti e a noi due, pronunziò la sua “sentenza”: «Il nostro Don Vincenzo è affetto da insufficienza respiratoria grave, a causa di una broncopneumopatia cronica ostruttiva che data ormai da decenni. Appartiene alla categoria che noi definiamo “blue bloater” piuttosto che “pink puffer”» e qui rivolse uno sguardo di complicità a noi due. «La prognosi è a dire il vero infausta, ma l’arte medica e la scienza dispongono oggi di terapie idonee a tentare di migliorare almeno la qualità di vita di questi pazienti». Le terapie prescritte dai colleghi sino ad ora sono ineccepibili e qui la signora Maria annuì soddisfatta. «A mio avviso» proseguì con uno sguardo alle decine di boccettine sul comò «Continuerei su questa strada, aggiungendo, con rispetto per la competenza dei colleghi curanti, piccole ma crescenti dosi di cortisone, ovviamente sotto controllo dei parametri metabolici». E così, con un inchino, si congedò da tutti e si fece accompagnare alla porta.