Siamo tutti malati e non lo sappiamo?
L’interrogativo posto da Peppino Di Tano, “Siamo tutti malati e non lo sappiamo?”, è l’occasione per una riflessione sul significato che malattia (o patologia) assume nella nostra epoca. Pur filtrata attraverso una serie di condizioni – individuo, società, lavoro, cultura etc – si può ragionevolmente riferirsi alla malattia come ad una condizione anormale di un organismo vivente, causata da alterazioni organiche o funzionali, che nel corso del tempo ha dato vita ad un ricca e varia iconografia, testimone dell’impatto che la mattia ha avuto ed ha sull’immaginario collettivo Si può definire “malattia” l’opposto della salute. Nella definizione di malattia è fondamentale il principio della transitorietà: ogni patologia ha un termine che può essere rappresentato dalla guarigione dell’organismo, dall’adattamento dello stesso ad una diversa fisiologia (o ad una diversa condizione di vita) o dalla morte.
Disease, illness, sickness
Nella letteratura in lingua inglese da anni si utilizza il termine disease per la concettualizzazione della malattia da parte del medico, il termine illness per indicare l’esperienza diretta del malato, la dimensione esistenziale/soggettiva, ed il termine sickness per determinare il riconoscimento della persona malata come tale da parte del contesto sociale non medico. In lingua italiana spesso si fa riferimento alla seguente tripartizione:
- Malattia intesa come modello medico: un processo patologico, una deviazione da una norma biologica. Intrinseca in questa definizione vi è una oggettività che permette ai medici di vedere, toccare, misurare il processo patologico. Di solito accompagnata alla malattia come esperienza soggettiva ma non necessariamente.
- Malattia intesa come il vissuto del malato: la sensazione, l’esperienza totalmente personale e soggettiva della perdita della salute. Spesso accompagnata dalla presenza della malattia “oggettiva” ma non necessariamente.
- Malattia intesa come modalità esterna e pubblica dello stato di cattiva salute: malattia come ruolo sociale, status e negoziazione tra il soggetto malato e la società.
La malattia, come parte integrante dell’esperienza umana, si esprime con svariati linguaggi, miti, metafore, leggende dando luogo ad atteggiamenti, comportamenti e pratiche, che hanno spesso attirato l’interesse di artisti con la nascita di autentici capolavori, la cui comprensione è possibile solo immergendosi nel contesto culturale e sociale del soggetto (Figura 1: Bacchino malato, olio su tela di Caravaggio, 1594 – Honoré Daumier, Il malato immaginario, cm. 27 x 35, Museum of Art, Filadelfia – Pablo Picasso, Scienza e carità, 1897, Barcellona, Museo Picasso).
“Chiedersi se il malato è una persona, o un oggetto, o una cosa, o un conglomerato biochimico, non ha molto senso. Il malato, lo sanno tutti, è un po’ tutte queste cose… Il malato è una persona in virtù delle sue relazioni con il mondo e con se stesso.” (Cavicchi, 2004). Ciò che lo caratterizza è il suo rapporto con la malattia e con il mondo esterno. “La malattia è il lato notturno della vita. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e nel regno dello star male. Preferiremmo tutti servirci del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino del mondo”(Sontag 1977). In Sociologia della salute è consolidata la distinzione tra disease, illnes e sickness dove con disease si identifica la condizione bio – fisiopatologica registrata dalla medicina, con illnes si identifica la percezione soggettiva della malattia, con sickness, si definisce la modalità con cui la società rappresenta la malattia. Così ad esempio si può far riferimento alla persona che si sente male (illness), al medico attesta la malattia (disease) e alla società gli riconosce lo status di malato (sick). In realtà la situazione è più complessa in quanto le tre dimensioni della malattia possono combinarsi variamente tra di loro, dando luogo alle seguenti 6 varianti.
- Disease e sickness senza illness: tipico esempio di malattie/condizioni riconosciute dalla medicina e dalla società ma non percepite come tali dall’individuo (es. elevati livelli di colesterolo etc.).
- Disease e illness senza sickness: si tratta di condizioni riconosciute dalla medicina e dall’individuo ma non dalla società (es. mal di denti, alcoolismo).
- Illness e sickness senza disease: si tratta di condizioni di sofferenza riconosciute dall’individuo e dalla società ma non dalla medicina (cefalee essenziali, disturbi funzionali).
- Disease senza illness e sickness: alterazioni che non sono realizzate dall’individuo e dalla Società come malattie.
- Illness senza disease e sickness: il malessere sentito dall’individuo non è riconosciuto scientificamente né socialmente (melanconia, ansia etc).
- Sickness senza illness e disease: condizioni socialmente ritenute anomale ma non percepite dall’individuo e dalla Medicina come malattia (es: l’omosessualità in taluni paesi) (Hoffman B, 2002; Cipolla C, Maturo A, 2005).
La concezione di malattia è sostanzialmente riconducibile a due modelli: quello biomedico e quello bio-psico-sociale. La concezione biomedica riduce la malattia a termini meramente fisici, tralasciando gli aspetti emotivi, comportamentali e comunicativi. In tale ottica per qualsiasi evento morboso è identificabile una causa biologica, da combattere. In tale modello il medico è portatore della conoscenza ed il paziente è depositario della malattia, delle informazioni ad essa connesse, ed è oggetto passivo delle decisioni del medico con conseguente disumanizzazione della relazione medico-paziente. In questa prospettiva per qualsiasi malattia esiste una causa biologica identificabile in modo oggettivo ed il metodo clinico è “centrato sul medico”. Il modello biomedico comporta una visione frammentaria del paziente frutto della iperspecializzazione e della frammentazione del sapere e del fare medico, con una tendenza alla ipermedicalizzazione e all’ipertecnicismo, basato sulla convinzione che per qualsiasi evento morboso esiste un farmaco, una macchina, una procedura in grado di curarlo. Nel modello bio-psico-sociale prevale una visione globale della malattia, dove oltre che fattori biologici giocano un ruolo importante fattori comportamentali e relazionali. A fronte della crescente medicalizzazione della società, l’approccio al paziente con malattia cardiovascolare avviene oggi sul duplice fronte della acuzie e della cronicità, della diffidenza e della fragilità del paziente, dell’esasperato tecnicismo e della esigenza di un nuovo umanesimo, dalla riscoperta della nuova centralità del paziente, non solo nel rapporto con il medico ma anche e soprattutto nel rapporto con la organizzazione sanitaria. (Liberati E. G, Moja,2014; Stewart M et al., 2000; Luxford K et AL, 2011).
Il paziente infatti ha bisogno:
- di non sentirsi abbandonato;
- di sentire che la organizzazione sanitaria lo pone al centro delle sue attenzioni;
- di avere capacità di comunicazione con il personale sanitario ed i familiari;
- di sentirsi sicuro;
- di sentirsi parte integrante, motivata ed attiva di un progetto assistenziale;
- di essere trattato con rispetto;
- di conservare la vicinanza emotiva con il curante e i familiari.
I familiari hanno bisogno:
- di avere una corretta informazione sullo stato del paziente;
- di sentirsi parte integrante ed attiva di un progetto assistenziale;
- di comunicare ed affrontare l’esperienza di malattia del familiare che stanno vivendo;
- di sentire la vicinanza con il curante e la sua equipe.
Medicalizzazione, Disease Mongering, Prevenzione Quaternaria
Ciò ha permesso la diffusione del fenomeno della medicalizzazione, consistente nel considerare eventi fisiologici e del tutto naturali come condizioni mediche che necessitano di diagnosi e trattamento e che determinano il ricorso, spesso inappropriato, dei servizi sanitari. Il lavoro, l’invecchiamento, la bellezza, la sessualità, il parto, la morte, la calvizie, le lentiggini, la cellulite vengono così considerati impropriamente eventi burden line tra il concetto di salute e quello di malattia e rappresentano soltanto alcune delle “non-diseaseness” individuate dal British Medical Journal nel 2002. Attualmente, al fine di ovviare ai fenomeni di Medicalizzazione e del Disease Mongering, si è andata sviluppando la Prevenzione Quaternaria, intesa come un’azione diretta ad identificare un paziente a rischio di sovra-medicalizzazione, per proteggerlo da eccessivi interventi medici e per suggerire procedure diagnostiche o terapeutiche eticamente accettabili. La classe medica mossa dall’entusiasmo delle nuove scoperte cliniche e tecnologiche e dai passi in avanti effettuati dalla ricerca scientifica non è stata lungimirante dal comprendere le grosse conseguenze che questo fenomeno avrebbe provocato da lì a poco, ritrovandosi a piangere del proprio male. C’è da aggiungere però, che tale fenomeno per certi versi è stato favorito anche dalla pressione esercitata delle industrie farmaceutiche; ma l’eccesso di medicalizzazione non riguarda solo i farmaci. Vi è un’evidente esasperazione anche nelle analisi cliniche, nelle richieste di accertamenti e nelle indagini sia da parte dei medici che dei cittadini stessi. Un vero e proprio circolo vizioso in quanto il medico prescrive esami e visite specialistiche che hanno costi esorbitanti, che gonfiano i portafogli degli specialisti svuotando quelli dei “pazienti” e rendendo insostenibile la spesa pubblica.
“L’epidemia delle diagnosi”. La sovradiagnosi
Tutto questo per diagnosticare malattie spesso inesistenti, perché più diagnosi significa più denaro per l’industria del farmaco, per gli ospedali e per i medici. Si parla così oggi di “epidemia delle diagnosi” (Figura 3 – Sovradiagnosi) che deve la sua nascita anche alla paura per il contezioso medico-legale: è più semplice trascinare davanti a un giudice un medico che non riesce ad effettuare una diagnosi, rispetto ad un medico che comunica una diagnosi infausta.
Più i pazienti e i parenti chiedono, più i medici si sentono in dovere di fare. La medicina non ha più limiti; la migliore cura è fare sempre qualcosa. È ormai noto come l’aspettativa di vita alla nascita sia straordinariamente aumentata, eppure ci sentiamo sempre più malati. Ma perché? Ogni giorno medicalizziamo la nostra vita e la cosa che preoccupa maggiormente è che il processo di medicalizzazione inizia fin dall’infanzia. È su questo terreno che oggi si parla di “Disease Mongering” – “commercializzazione di malattie” – cioè la creazione di nuove patologie inesistenti o l’ampliamento del numero di malati per una determinata malattia, abbassando o innalzando il range di normalità. Esso rappresenta un vero e proprio fenomeno, descritto per la prima volta nel 1992 da Lynn Payer, nel suo libro “Disease Mongers: How Doctors, Drug Companies and Insurers are making you feel sick”, che lo definisce come il tentativo di “convincere persone sane di essere malate o persone leggermente malate di essere molto malate” (Figura 2 A. Lynn Payer, “Disease Mongers: How Doctors, Drug Companies and Insurers are making you feel sick”,1922; Figura 2 B Ivan Illic “Nemesi medica. L’espropriazione della salute”, 1976). L’elemento essenziale affinché la strategia abbia successo è la diffusione di una coscienza di malattia: ma pensare di essere affetti da una patologia perché con l’avanzare dell’età si perdono i capelli, oppure perché si ha mal di testa prima del ciclo mestruale, oppure perché si va incontro al processo fisiologico di invecchiamento può essere fuorviante. Negli ultimi anni vi è stato inoltre uno spostamento verso l’alto e il basso dei criteri diagnostici di normalità di alcune patologie e questo ha determinato la scoperta che persone che fino a ieri erano sane, oggi sono malate. È bene però specificare, al fine di non generare malintesi, che non tutte patologie sono il risultato della creatività delle Big Pharma: le malattie esistono e sono generalmente tenute sotto controllo dall’uso di farmaci, ma purtroppo vi è uno sforzo collaterale a spingere verso la medicina situazioni e manifestazioni in cui un suo intervento è superfluo o del tutto inutile e controproducente. La società deve prendere coscienza che la ricerca di una malattia non sempre è l’approccio giusto. Secondo il paradigma della diagnosi precoce, prima si identificano le anomalie meglio è. Per questo le persone sono dell’idea che tanto prima viene diagnosticata la malattia tanto maggiore sarà il beneficio. Ma questo ci riporta all’eccesso di diagnosi, in quanto il problema è che non si riesce a distinguere tra le diverse fasi di precocità della diagnosi. Quando si sente parlare di scetticismo relativo alla diagnosi precoce, ci si riferisce in particolar modo alle diagnosi in assenza di sintomi, perché è in questi casi che si verifica la sovra-diagnosi.
“Nemesi medica”
A riguardo, particolarmente possono risultare le riflessioni di Ivan Illich. Nel 1976 scrisse “Nemesi medica”, in cui contestava la medicina ufficiale e l’estensione del suo potere sulla società. Il saggio si apre con un’affermazione forte e provocatoria: “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute”. Per Illich la medicina provoca non solo essa stessa la malattia (iatrogenesi) ma diventa una macchina per creare consumatori incapaci di avere consapevolezza e saper autogestire la propria salute. Essa infatti produce di continuo nuovi bisogni terapeutici e via via che l’offerta di sanità aumenta si generano nuovi problemi e malattie. Illich si batté contro il sistema ospedaliero (famosa la statistica con cui mostrò che, in seguito a uno sciopero ospedaliero in Francia, senza medici c’era stata una sensibile diminuzione di decessi) e l’ossessione della salute perfetta. Per Illich ci sono tre tipi di iatrogenesi (Figura 4 – Relazione tra il rischio basale di un evento futuro e il beneficio del trattamento): quella clinica, quella sociale e quella culturale.
Nella prima egli sottolinea come l’applicazione di cure mediche, lungi dal guarire l’individuo dalla malattia, funzionano a loro volta da agenti patogeni. Spesso, infatti, sono farmaci, medici e ospedali a causare malattie di vario tipo, ancora più di batteri, virus o altre cause note. La seconda si manifesta attraverso i sintomi di supermedicalizzazione sociale, quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, come se fosse un prodotto industriale, stabilendo inoltre che cosa è “deviante” rispetto al concetto di salute (Figura 5 – Checklist per modificare la definizione di una malattia; Figura 6 – Impatto sulla prevalenza di una nuova definizione di malattia).
La iatrogenesi culturale infine “distrugge nella gente la volontà di soffrire la propria condizione reale”. La civiltà medica ha ridotto il dolore a problema tecnico e lo ha privato del significato personale, trattandolo allo stesso modo per tutti. Invece il dolore è il sintomo di un confronto con la realtà e non può essere “oggettivamente misurabile”. L’uomo occidentale ha perso anche il diritto di presiedere all’atto di morire e viene espropriato della libertà di scelta su di sé e sulla propria salute. Illich auspica invece che “nessuna assistenza dovrà essere imposta a un individuo contro la sua volontà: nessuna persona, senza il suo consenso, potrà essere presa, rinchiusa, ricoverata, curata o comunque molestata in nome della salute”. La riflessione di Illich resta ancora attuale. I problemi e i limiti della medicina occidentale, che egli aveva individuato, si esplicano oggi nella grande manipolazione, operata dalle multinazionali farmaceutiche che crea non solo nuovi ammalati, ma con la complicità del potere politico mira ad escludere del tutto la possibilità di una reale prevenzione e la libertà di scelta terapeutica. Senza una presa di coscienza profonda e un rifiuto che parta da noi stessi la realtà oggi rischia di essere ancora peggiore di quanto Illich avesse potuto prevedere, molto lontana dall’ idea di medico che ha dominato le coscienze per molto tempo. “Tutti i medici tradizionali credevano nelle persone, e i pazienti parlavano loro della propria natura. La natura veniva sperimentata, veniva sentita, odorata, assaporata dalle persone. Come lo spettatore, nel teatro greco, veniva educato a «sentire» l’attore, così il medico – quasi partecipasse a una tragedia greca – veniva educato, attraverso la mimesis (una simpatia che diventa sentire l’altro), a sentire la tragica vicenda di quella persona che sedeva dinanzi a lui e che, nella sua condizione umana, si era trovata in qualche guaio, in qualche contrarietà; e la natura cercava di guarire se stessa. Il concetto di salute non esisteva; esisteva solo l’idea di una natura più o meno capace di guarire costantemente se stessa. E ciò che il medico faceva, con il consiglio, con l’empatia, col potere della parola – la parola che risanava – e forse con pillole di coralli macinati o di mercurio, che sono altamente tossiche, come diremmo oggi, consisteva nell’incoraggiare la natura, nel rafforzare la natura, a compiere la propria azione guaritrice. Oggi ci è difficile pensare in questo modo alla funzione del medico. Pensiamo sempre che egli usi qualche strumento della sua professione per fare qualcosa al sistema o al sottosistema che c’è nel paziente, e che lui, non il paziente, conosce” (Ivan Illich, “Pervertimento del cristianesimo: Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità” a cura di Fabio Milana, traduzione di Aldo Serafini, Quodlibet, Macerata, 2012).