La prescrizione dell’esercizio fisico nell’ex-atleta con cardiomiopatia: un approccio che non può essere standardizzato

HomeCardiologia e sport

La prescrizione dell’esercizio fisico nell’ex-atleta con cardiomiopatia: un approccio che non può essere standardizzato

Proporre uno sforzo fisico moderato, cosa significa? Suggerire una camminata o un giro in bicicletta ad un giovane amante di uno sport di squadra siamo sicuri possa essere sufficiente?

Prescrivere personalizzando, pianificare, programmare l’allenamento sono cruciali, ma non può essere dimenticato conoscere dove si svolgerà l’allenamento condiviso. Sarà un ambiante cardioprotetto?

Ognuno, se fruga nei propri ricordi, può rammentare incontri, esperienze, storie che hanno contribuito a segnare, nel bene o nel male, il proprio cammino. La professione del medico offre, forse, maggiori opportunità. Il confronto con il paziente “archivia” epiloghi diversi: alcuni positivi, altri perfino tragici. Fondamentale, comunque, si dimostra sempre la capacità di scrutare in profondità, senza mai trascurare le sfumature che affiorano. Saper apprendere dagli errori, evitando di rifugiarsi in alibi, è determinante. Percorrendo questa strada, si impara non solo a modellare il proprio approccio professionale, ma anche ad arricchirlo. Se si possiede la forza e l’umiltà di agire in questo modo, è molto probabile che il risultato finale sia migliore: di conseguenza, il paziente che incontreremo successivamente ne trarrà indubbiamente beneficio. Un giovane di 16 anni. Lo chiameremo Fabio. Segnalato da un collega. Qualche anno fa Fabio si sottopone alla consueta valutazione annuale medico sportiva. L’elettrocardiogramma registra lievi alterazioni della ripolarizzazione ventricolare nelle derivazioni V4, V5 e V6. Il medico dello sport, esperto nella gestione di casi simili, non si lascia ingannare. Il confronto con l’ECG dell’anno precedente si rivela eloquente: alterazioni significative, non presenti nella valutazione precedente. Il quadro merita ulteriori approfondimenti. Il test da sforzo rettangolare risulta negativo per sintomi e aritmie; nessuna aritmia anche alla registrazione dell’elettrocardiogramma delle 24 che prevedeva una seduta di allenamento. L’ecocardiogramma invece, fornisce informazioni importanti: spessore del setto 14 mm, parete posteriore 12 mm e diametro telediastolico di 49 mm, atri e funzione ventricolare nella norma. Il sospetto di una forma iniziale di cardiomiopatia ipertrofica (CMI) viene confermato alla risonanza magnetica cardiaca: CMI moderata (spessore massimo di 17 mm nella zona del setto anteriore basale), assenza di accumulo di gadolinio. Le tappe successive: stop dello sport agonistico e invio presso un centro specializzato nelle cardiomiopatie. La valutazione riservata a questo caso è molto accurata, l’approfondimento, aggiunto a quanto era già stato eseguito sino a quel momento, esclude anche gradiente intraventricolare a riposo e da sforzo. Il quadro si può riassumere così: familiarità negativa per cardiomiopatie e morte improvvisa, asintomaticità, nessuna aritmia e riposo e da sforzo, nessun gradiente, ipertrofia moderata, assenza di cicatrice alla risonanza magnetica. La diagnosi confermata quindi è CMI ma a basso rischio. Riceve indicazioni per il followup, confermato lo stop sportivo, consigliando di fare molta attenzione alla disidratazione. I genitori non si danno per vinti e dopo qualche mese (probabilmente spinti dalle richieste del figlio), si rivolgono nuovamente al medico dello sport, alla ricerca almeno di una certificazione per l’attività sportiva NON agonistica. A quel punto, sarebbe stato possibile rivedere la posizione iniziale e adottare le indicazioni più “liberali” proposte dalle nuove linee guida ESC in cardiologia dello sport pubblicate solo pochi mesi prima (1). Il documento, pur evidenziando che la giovane età era, e rimane, una aggravante nel profilo di rischio, proponeva un approccio più permissivo nei confronti dell’attività agonistica anche per i soggetti affetti da CMI. Condizione necessaria per ottenere il via libera: cardiomiopatia a basso rischio e forte motivazione a continuare l’attività sportiva. Il caso di Fabio sembrava rispondere ad entrambe le condizioni. A supporto della tesi “liberale” alcuni studi clinici longitudinali. Lampert (2), et al. hanno riportato come pazienti affetti da CMI nonostante abbiano continuato a partecipare a sport anche dopo l’impianto di un defibrillatore cardiaco impiantabile (ICD) non hanno mostrato, durante l’esercizio, un aumento del numero di interventi del device. In un altro studio, condotto su 187 pazienti sempre con CMI (3), non sono state registrate aritmie ventricolari anche se continuavano con la pratica di attività fisica ad intensità vigorosa. Infine, i risultati della ricerca di Pelliccia (4), condotta su 35 atleti con CMI attivi dal punto di vista fisico per periodi da 5 a 31 anni (media di 15 ± 8), non hanno evidenziato differenza significativa nel numero di eventi avversi tra coloro che continuarono a fare sport (20 soggetti) e chi invece l’aveva sospeso (15 soggetti). Nonostante il nuovo documento ribadisse l’esiguità delle prove a favore di un rischio di eventi maggiori durante attività fisico-sportiva in soggetti affetti da CMI e che la restrizione sistematica dallo sport competitivo in questo particolare contesto, non sembrasse giustificata, il collega ribadisce ai genitori la stessa decisione: per Fabio lo sport è vietato! A quel punto, forse, per proporre un’alternativa sportiva, si decide di inviare il paziente presso un centro specializzato per la prescrizione dell’esercizio fisico. Dopo un test da sforzo cardiopolmonare, gli viene consegnata (in aggiunta a tutto quello che la gestione di quel caso aveva già previsto), anche una lettera di prescrizione molto dettagliata. Prevedeva: attività aerobiche come camminate, bicicletta o qualsiasi altra gradita, per un massimo di 150 minuti tre volte a settimana. Vietato superare i 160-165 battiti al minuto. Proposti anche esercizi per allenare la forza. Non manca nulla.

Figura 1

Nonostante tutto, qualche mese dopo, alle 16 circa di un pomeriggio afoso Fabio, mentre gioca una partitella di calcio con gli amici nel campetto dell’oratorio del paese (non cardio protetto), cade a terra e, nell’immobilismo del gruppetto dei presenti, non si rialza più. Morte improvvisa. L’esame autoptico sentenzia: cardiomiopatia ipertrofica con spessore massimo di 15 mm e una vistosa cicatrice miocardica non evidente alla risonanza magnetica, eseguita poco più di un anno prima. La nota imprevedibilità della CMI. Epilogo inaspettato? Apparentemente sì. Diagnosi precoce, inquadramento clinico, stratificazione del rischio di eventi avversi, sospensione della pratica sportiva. Inoltre, la novità in questo contesto clinico: la prescrizione di un programma di esercizio fisico. Se analizziamo ogni passaggio, il decorso appare lineare. Linee guida rispettate. Quando si verifica un caso clinico con un simile epilogo tragico, è fondamentale riflettere a fondo e analizzare l’accaduto per trarre insegnamenti che possano migliorare la pratica clinica futura. Perché Fabio ha giocato quella partitella? Era la prima dopo tanto tempo? Era chiaro alla famiglia che la pratica del calcio avrebbe potuto riservare rischi anche per la vita? Era stato compreso che sforzi ad alta intensità nella fase post-prandiale e in condizioni di disidratazione avrebbero potenziato il rischio? Perché non ha seguito la prescrizione consegnata solo pochi mesi prima? Domande legittime alle quali non avremo risposta. Anche senza tutte le informazioni necessarie, abbiamo cercato di scomporre ogni passaggio. Tanti gli spunti di riflessione. Ne ho evidenziati tre. Primo: significato di basso rischio. Le parole hanno valore, sempre, tuttavia devono però essere comprese fino in fondo. Basso rischio significa bassa probabilità di eventi, non certo zero eventi. Mai dimenticarlo. Negli ultimi tempi sembra percepirsi, con insistenza, un atteggiamento permissivo in contesti simili. Prima di aprire frontiere in distese inesplorate – permettere lo sport in condizioni cliniche definite a basso rischio – servono studi ad hoc, lunghi periodi di osservazione, casistiche di numerosità adeguate. Questo è un passaggio obbligato. Secondo: comprensione del rischio, solo apparentemente nascosto, in un contesto clinico come quello di Fabio. Il paziente e i familiari, quando parliamo di minorenni, devono aver ben chiaro il pericolo che un simile quadro clinico potrebbe celare. Forse serve una riflessione sull’importanza di momenti di counseling modellati per facilitare il livello di consapevolezza. Ci stiamo provando, sembra funzionare. Terzo: utilità di prescrivere un programma di esercizio fisico. Questo è un punto fondamentale. Delineare cosa proporre dal punto di vista fisico, rappresenta un passaggio di grande novità. La prescrizione dell’esercizio fisico sta diventando pratica diffusa, vorrei quasi dire di moda. Digitare su pubmed exercise prescription riserva una sorpresa: dopo una lunga fase piatta a significare nessun interesse scientifico, dagli anni 2000 è evidente l’impennata di lavori scientifici pubblicati su questo argomento. Tanto interesse su vari fronti. Tutto ciò è estremamente importante e potrebbe rappresentare una grande opportunità per i pazienti, a patto però, non si generalizzi. Non è pensabile riprodurre per tutti gli stessi programmi. Prescrivere in modo “asettico” mette tranquilli con il dovere clinico, ma difficilmente verremo ascoltati. Negli ultimi anni in molti si stanno impegnando nel tracciare linee guida sull’argomento. Per passare dalla teoria alla pratica serve esperienza e la storia di Fabio è un esempio lampante. Proporre uno sforzo fisico moderato, cosa significa? Suggerire una camminata o un giro in bicicletta ad un giovane amante di uno sport di squadra siamo sicuri possa essere sufficiente? Ma prima di scandagliare dettagliatamente il “nodo” cruciale, sembra indispensabile una digressione. Estate 1993, frequento il terzo anno di specializzazione in Medicina dello sport all’Università di Padova. Il direttore del corso è Giorgio Brandi, allievo del Prof. Margaria, considerato il padre della fisiologia italiana. In quel periodo, le scuole di specializzazione non erano strutturate come oggi: ogni studente doveva costruirsi il percorso formativo. Su consiglio della Dott.ssa Donatella Noventa, direttrice della Unità complessa in Medicina dello sport di Noale, che avevo conosciuto qualche anno prima, inizio a frequentare la Cardiologia di Mirano in provincia di Venezia. La mia formazione inizia in quel reparto. Affascinato dallo scompenso cardiaco: fisiopatologia, emodinamica destra, indicazione al trapianto di cuore, adattamenti muscolari e soprattutto il ruolo del training fisico in quel contesto clinico. Un pomeriggio di settembre, la Dott.ssa Noventa, viene a trovarmi in corsia. Avevo maturato l’dea di realizzare un centro di prescrizione dell’esercizio fisico: glielo comunicai. Non era chiaro cosa significasse realmente né potevamo immaginare le difficoltà che si sarebbero incontrate. Unica certezza: i pazienti ne avrebbero tratto beneficio. Da quel momento scatta la storia destinata a culminare nell’attuale Centro regionale di Treviso. Si doveva necessariamente iniziare dalla fisiologia del movimento. La miglior scuola: gli atleti. Il centro olimpico dell’Acquacetosa a Roma, è stata la “palestra” decisiva. Dall’indimenticabile Dott. Marcello Faina e dal caro amico Dott. Claudio Marini abbiamo imparato l’arte medica della valutazione funzionale dell’atleta, in laboratorio e sul campo. Da Roberto Colli, uno dei migliori metodologi in Italia, si poteva apprendere come strutturare un programma di allenamento. Grazie ai loro insegnamenti, nasce a Noale un laboratorio di valutazione funzionale per atleti di alto livello. Novità assoluta per il Servizio Sanitario pubblico. Tanti gli atleti illustri con cui abbiamo lavorato. Antonella Bellutti, ciclista pistard con due ori olimpici: Atlanta ‘96 e Sydney 2000. Luca Toni, bomber della serie B predestinato ad alzare la Coppa del mondo a Berlino. Massimiliano Presti, uno dei pattinatori più forti a livello mondiale. Ivan Basso, campione del mondo di ciclismo su strada per dilettanti e poi maglia gialla al Tour de France. Samir Handanovic, portiere dell’Inter e molti altri. Gli insegnamenti di quegli anni si sono dimostrati preziosi, perfino originali quanto consolidati. Successivamente assieme alla Dott. ssa Laura Merlo, arrivata a Noale nel 2000, abbiamo “trasferito” ai nuovi pazienti il patrimonio di conoscenza accumulato senza soluzione di continuità. Iltest di Mader (Figura 2), molto usato nei Paesi dell’Est, adattato al contesto clinico e abbinato alla valutazione cardiopolmonare.

Figura 2

Si dimostrò utilissimo per definire le caratteristiche aerobiche e delineare il grado di decondizionamento periferico dei pazienti, oltre ad aiutarci a designare le intensità dell’allenamento da consigliare. Inoltre, risultò efficace per monitorare i miglioramenti ottenuti (Figura 3). Successivamente si è introdotto l’uso del lattato per poter delineare e ottimizzare l’intensità dell’allenamento. Abbiamo imparato quanto sia importante prima di consigliare un programma di allenamento, monitorare i pazienti in telemetria. Le sorprese possono prevenire complicazioni irreparabili. Infine, si sono sviluppati protocolli dedicati di allenamento della forza resistente.

Mancava l’ultimo tassello: dove avremmo inviato i pazienti a continuare il programma prescritto? Con Paola Astolfo, specialista dell’esercizio fisico, aggiunta al gruppo poco dopo, abbiamo sentito l’esigenza di far continuare il programma lontano dalla nostra supervisione. Ecco l’idea delle palestre, perfezionate poi nelle “palestre della salute”, in cui avrebbero dovuto operare specialisti dell’esercizio da noi adeguatamente preparati in un ambiente adeguato anche a gestire un eventuale emergenza. Pura eresia all’epoca… Questo passo indietro nella storia è utile per comprendere quanto sia cruciale non improvvisare o generalizzare la prescrizione dell’esercizio fisico. È impensabile adottare modalità standard per la creazione di programmi di allenamento. È corretto pensare che attività moderate o vigorose possano andar bene per tutti? Chi si occupa della prescrizione dell’esercizio fisico o della personalizzazione dei programmi di allenamento in contesti clinici non può limitarsi ad allungare un semplice foglio con alcune indicazioni. La differenza si dimostra con l’impegno nell’adattare i programmi alle esigenze specifiche e alle aspettative di ogni singolo paziente e monitorare attentamente le fasi iniziali di allenamento. Negli ex-atleti diventati pazienti, indipendentemente dall’età, non può mancare una corretta programmazione dell’allenamento. Mai dimenticare: contesto clinico, capacità funzionale e profilo di rischio. Questo può favorire una maggior aderenza al nostro lavoro da svolgersi in sicurezza. A tutto questo, non può mancare la massima attenzione al grado di comprensione del livello di rischio, specialmente nel contesto sportivo. Se non è completa, è preferibile fare un passo indietro e attendere il momento opportuno. Un breve incontro di follow-up con il paziente potrebbe davvero fare la differenza. Prescrivere personalizzando, pianificare, programmare come detto sono cruciali, ma non può essere dimenticato conoscere dove si svolgerà l’allenamento condiviso. Sarà un ambiante cardioprotetto? Forse, Fabio, avrebbe avuto bisogno del “secondo tempo”: dopo la diagnosi infausta e il calcolo della riduzione del rischio, avrebbe dovuto essere persuaso a diventare consapevole, attento e prudente. A Treviso, dopo questo epilogo, abbiamo modificato radicalmente il nostro modus operandi. È per questo che non finiremo mai di ringraziare il collega per averci fatto conoscere questa storia. In definitiva, un approccio personalizzato è la chiave per una prescrizione efficace dell’esercizio. Comprendere le necessità individuali, valutare i progressi e mantenere una comunicazione aperta sono atteggiamenti indispensabili per costruire un percorso sicuro e motivante. Solo così potremmo sperare che il paziente non solo segua il programma, ma ci creda e lo viva come un’opportunità di migliorare la qualità di vita. Non sempre si riesce a guarirli, tuttavia fa sempre la differenza come ci si cura della salute dei pazienti.


Bibliografia

  1. 2020 ESC Guidelines on sports cardiology and exercise in patients with cardiovascular disease The Task Force on sports cardiology and exercise in patients with cardiovascular disease of the European Society of Cardiology (ESC). European Heart Journal (2021) 42, 1796
  2. Lampert R, Olshansky B, Heidbuchel H, Lawless C, Saarel E, Ackerman M, Calkins H, Estes NAM, Link MS, Maron BJ, Marcus F, Scheinman M, Wilkoff BL, Zipes DP, Berul CI, Cheng A, Jordaens L, Law I, Loomis M, Willems R, Barth C, Broos K, Brandt C, Dziura J, Li F, Simone L, Vandenberghe K, Cannom D. Safety of sports for athletes with implantable cardioverter-defibrillators: longterm results of a prospective multinational registry. Circulation 2017;135:23102312
  3. Dejgaard LA, Haland TF, Lie OH, Ribe M, Bjune T, Leren IS, Berge KE, Edvardsen T, Haugaa KH. Vigorous exercise in patients with hypertrophic cardiomyopathy. Int J Cardiol 2018;250:157163
  4. Pelliccia A, Lemme E, Maestrini V, at aklkl. Does sport participation worsen the clinical course of hypertrophic cardiomyopathy? Clinical outcome of hypertrophic cardiomyopathy in athletes. Circulation 2018;137:53153
  5. Sarto P, Merlo L, Astolfo P, Sarto M, Bedin L, Noventa D; Comprehensive therapeutic program for cardiovascular patients: role of a sports medicine unit in collaboration with local gymnasiums. Long Term Therapeutic Exercise Training (LoTTET) Group. J Cardiovasc Med (Hagerstown). 2009 Jan;10(1):27-33

Autore