Il ritmo del tamburo

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Il ritmo del tamburo

MANUEL ACCORONI
Manuel Accorroni è nato a Jesi nel 2002. Si è laureato alla Scuola Holden e frequenta il corso di Laurea Magistrale in Cinema e Media all’Università di Torino, mentre la scrittura continua a occupare un ruolo centrale nella sua esperienza.

Il bambino era nato con un’aritmia al cuore, ma non lo sapeva ancora. Come non lo sapevano i suoi genitori. L’avrebbero scoperto la notte dei festeggiamenti per il suo sesto mese di vita, quando il cuore del bambino avrebbe iniziato a battere più forte, più veloce, come se dovesse scoppiare. Cosa provò quella notte non possiamo saperlo per certo, ma se avesse avuto le parole per dirlo, forse sarebbero state queste.
Oggi la casa è diversa dagli altri giorni. Alle pareti sono appesi dei triangoli azzurri con dei segni colorati sopra. Mamma e papà sembrano più felici, mi prendono in braccio e mi lanciano e mi riprendono, poi mi sollevano e mi sembra di volare, perché vedo tutto dall’alto e sono distantissimo dal pavimento su cui sto di solito. Sorridono per tutto il tempo, allora giro anch’io gli angoli della bocca all’insù perché i miei genitori sono belli e voglio essere bello come loro. La mamma si muove per tutta la casa senza fermarsi mai, passa da una stanza all’altra come quel topo col cappello che vedo la mattina alla tv quando mi danno da mangiare. Sopra alla maglietta porta un altro vestito bianco che le arriva fino ai piedi e si sporca al posto suo. È un po’ come quello che mi fa pizzicare il collo quando mangio.
Prima da mangiare me lo dava la mia mamma e non avevo bisogno di quel vestito bianco perché mi puliva lei. Adesso dicono che non posso bere più il latte della mamma e mi danno un’altra cosa verde che puzza e non mi piace. Dicono che mi fa bene, ma io non ci credo perché i pezzetti che ci sono dentro mi fanno strizzare gli occhi, allora chiudo la bocca e gliela lancio indietro. Quando arriva l’aeroplanino, però, la lascio entrare anche se puzza ed è calda e meno cattiva di quanto pensavo.
Mamma dice che la cena è pronta, ma non sento l’odore che c’è di solito. La cucina sa di buono e non vedo quella cosa verde. Papà mi mette a sedere e nel piatto ci sono dei pezzetti di un altro colore. Sembrano buoni e allungo le mani per provare a prenderli, ma quando stringo le dita scivolano via. Allora papà mi aiuta, apro subito la bocca ma quando li mangio strizzo gli occhi lo stesso. Non capisco perché non mi vanno. C’è qualcosa che li blocca e non li fa scendere bene. Non mi vanno, vorrei dire e allora mi esce qualche verso. Papà ci riprova ma lo spingo via, così mi pulisce e mi fa bere l’acqua ma non voglio neanche quella. Finiscono di mangiare anche loro e iniziano a cantare, mi prendono le mani e me le fanno battere insieme. Io sono contento e mi sento battere dentro.
La mamma ha preparato anche un’altra cosa buona che io non posso ancora mangiare, o almeno è quello che dice lei con la sua voce dolce. Mi dice di soffiare per spegnere le lucine che ci sono sopra ma non ce la faccio. L’aria che mi esce dalla bocca non basta, è troppo poca, allora mi sforzo per farne uscire di più, ma le lucine scappano e non vogliono saperne di spegnersi. Papà mi sorride e penso che posso farcela, così soffio fino a diventare rosso. Penso che sembro quel lupo che vuole buttare giù la casa ai porcellini nella storia che mi raccontano sempre prima di dormire. Ho le guance piene d’aria ma non riesco a spingerla fuori, sento che la mia bocca fa dei suoni strani che fanno ridere mamma e papà. Alla fine mamma mi aiuta. A lei esce più aria dalla bocca e non diventa rossa, qualche lucina si spegne, ma volevo farlo io. Continuo a spingere ma non esce più nulla e sento che non respiro.
Provo a far entrare l’aria dal naso ma non cambia niente, allora apro la bocca più che posso ma sembra che qualcosa blocca l’aria perché non scorre e mi sento battere dentro sempre più forte. Ho le guance rosse, sono stanco e agli occhi mi stanno venendo le lacrime. Le lucine le ha spente tutte la mamma ma non è contenta di averlo fatto. Mi guarda in modo strano, le sue labbra non sorridono come prima e ha la faccia spaventata. Mi spavento anch’io quando vedo la mamma spaventata. Sento papà che le dice di stare calma ma non ci riesce e non ce la faccio neanche io perché il tamburo che ho dentro batte sempre più veloce e più forte. Lo sento nelle orecchie e fino ai piedi. Io vorrei dirgli di fermarsi, allora piango con il poco fiato che mi è rimasto.
Mamma si toglie il vestito bianco e lo toglie anche a me, mentre papà prende il vestito pesante che ci mettiamo per uscire. Mi prendono in braccio e scendiamo di corsa per le scale. A volte lo facciamo per gioco, ma oggi non mi diverto perché sento male al centro del corpo.
Quando saliamo in macchina, papà la accende e parte subito. Non so dove stiamo andando ma mamma mi culla e mi tiene stretto. Io ho caldo e non riesco a smettere di piangere perché l’aria non vuole ancora entrare e il tamburo sembra che voglia uscire fuori da quanto va veloce. Per la strada mamma e papà parlano ma non capisco quello che dicono perché mi viene sonno e mi si chiudono gli occhi. Solo che la mamma poi mi scuote piano per svegliarmi e mi fa guardare dal finestrino. Io non avevo mai visto il buio perché a quest’ora dormo e voglio dormire anche adesso, così magari il tamburo che ho dentro smette di battere e ricomincio a respirare bene e non piango più. Papà mi dice di non piangere quando mi faccio male, io ci sto provando ma anche le lacrime fanno quello che gli pare, però papà non dice niente perché guarda avanti concentrato e mi controlla ogni tanto.
La macchina si ferma davanti a un posto con i muri grigi e le finestre tutte uguali. Mi portano dentro correndo come quando abbiamo sceso le scale, solo che adesso stiamo salendo. Vedo le persone intorno che ci guardano con la stessa faccia che hanno mamma e papà. Qualcuno cammina piano piano e sembra triste come me, allora provo a chiedergli se anche lui ha un tamburo che gli fa battere tutto ma escono solo lacrime e urla. Sono stanco, voglio riposarmi, così provo a chiudere gli occhi ma mi sento girare la testa ed è come se il mondo non riuscisse più a stare fermo.
Quando riapro gli occhi mamma mi tiene ancora in braccio ma non corriamo più. Anche questa stanza ha le pareti grigie e c’è un letto con un telo bianco sopra. Magari mi stenderanno lì e potrò mettermi a dormire. Nella stanza entra un’altra persona che somiglia alla mia mamma perché anche lei ha un vestito bianco sopra ad altri vestiti. Chiede qualcosa a papà ma non capisco e le parole adesso mi danno fastidio alle orecchie perché suonano insieme al tamburo. Allora grido più forte per provare a coprire il rumore. Le parole dell’altra mamma vestita di bianco lottano con le mie e con il tamburo per farsi sentire.
Mamma mi lascia sul letto con il telo bianco, mentre l’altra mamma mi attacca tanti piccoli cerchi con dei fili in tutto il corpo. Poi mi mette una mano sul collo e ho paura perché penso che sta per farmi qualcosa di brutto. Invece muove le dita piano e il tamburo rallenta per un attimo, ma mi manca ancora l’aria e mi si chiudono gli occhi.
Quando mi toglie i cerchi bianchi guardo mamma e papà che hanno la stessa faccia di prima, allora il tamburo riparte come se l’altra mamma non mi avesse toccato il collo. Fallo smettere, vorrei dire ma piango per non sentirlo più.
Papà si avvicina e mi passa una mano sulla testa. Io per un momento sento fresco sul braccio e subito dopo un pizzicotto. Quando vedo che l’altra mamma con il vestito bianco mi sta mettendo qualcosa nel braccio mi dimentico del tamburo per un po’. Perché mi dà i pizzicotti? Non voglio, poi magari il tamburo si arrabbia e sbatte più forte e io urlo perché non voglio! Il tamburo si calma ma io no, tanto poi ricomincia. Avevo ragione che si arrabbiava. Con quel suo tum tum continuo e forte, sempre più forte, che sembra voler dire ora esco e non rientro più.
Non ce la faccio nemmeno a rimanere sveglio. Non come prima, peggio. Guardo mamma e papà ma non li vedo bene. L’altra mamma è solo una macchia bianca ormai. Il tamburo non lo sento ma ora che è fermo mi fa male al centro del corpo. Piango per dirgli di battere ancora un po’ ma piano. Solo che quello continua a non ascoltarmi. Mi porto una mano dove sento dolore e stringo il pugno, almeno magari posso tirarlo via. Mi gira la testa. Non ce la faccio più!, vorrei gridare ma vedo solo nero e buio.
Mi sembra di sentire qualche scossa, nient’altro. Quando apro gli occhi l’altra mamma con il vestito bianco mi guarda sorridente mentre si allontana. Dal centro del corpo, dove avevo male, mi toglie un rettangolo grigio e freddo attaccato a un filo come i cerchi di prima. Riporto la mano su quel punto ma il dolore se n’è andato e anche il tamburo non batte più fino a scoppiare. Lo sento ancora ma è calmo e segue un ritmo che mi piace quando arriva fino nelle orecchie e nel resto del corpo. Anche a mamma e papà adesso sono tornate le facce belle, allora rido anch’io e mi agito di contentezza. Poi mi prendono in braccio e sento la stanchezza che arriva tutta insieme, ma respiro e non ho più male.
Magari grazie all’altra mamma con il vestito bianco quando saremo a casa riuscirò a spegnere tutte le lucine da solo, poi potrò finalmente chiudere gli occhi e mettermi a dormire.

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