ANNA RAUCCI
Anna Raucci è nata nel 1998 a Vico Equense. Ha iniziato a leggere grazie ad Agatha Christie e non ha mai smesso. Si è laureata in Giurisprudenza, poi si è iscritta alla Scuola Holden per studiare scrittura.
Al buio si tastò goffamente il polso, cercando il punto in cui avrebbe potuto sentire i battiti, proprio accanto al neo. Uno, due, tre… Non riusciva mai a capire se fossero giusti. Ogni volta che andava dal medico, le dicevano che il suo cuore andava troppo piano. A undici anni Alice aveva già visto molti camici bianchi, respirato l’odore di disinfettante dei loro studi, abituandosi alle lunghe attese e all’ansia degli esami. Quando si annoiava, picchiettava con le dita sulla punta delle ginocchia, simulando battiti rapidi. Anche quelli non andavano bene, diceva sua madre. Si doveva restare a metà. Né troppo veloci, né troppo lenti. Uno, due, tre… mentre i dottori parlavano con i suoi genitori, proponevano interventi e nomi di altri medici che suo padre segnava su un quadernino. Di notte la assaliva la paura che il suo cuore potesse fermarsi. Le avevano detto che non sarebbe successo, ma non erano sicuri. Stringeva il peluche del Duca Foca e iniziava a tamburellare sul suo petto, scandendo battiti immaginari, chiedendosi se sarebbe guarita, e quando.
Il Duca era un regalo di sua nonna. Col corpo da foca, il cilindro da mago, il frac e le pinne, era il suo peluche preferito. Di giorno stava su uno scaffale sopra il suo letto, insieme al Barone Orso e alla bambola con la tuta da sci. Ogni tanto lo lavava, e allora rimaneva sul Duca l’odore del bagnoschiuma al mirtillo.
Quella mattina, Alice si preparò in fretta e prese il bus. Le girava un po’ la testa. Per tutto il tragitto picchiettò con le dita su ogni superficie: i sedili, lo zaino verde, il finestrino, controllando i secondi che passavano sull’orologio da polso. Ricominciava a contare ogni volta che i battiti erano inferiori a sessanta al minuto. Alla prima ora aveva storia dell’arte. La Martino la chiamò per interrogarla. Alice si alzò, fece due passi e si sentì cadere. Quando aprì gli occhi riconobbe il banco di Cristina, le gomme appiccicate sotto e i nasi che avevano disegnato insieme una settimana prima, accovacciate sul pavimento durante il cambio dell’ora.
– Alice, Alice, che succede? – . La Martino era china su di lei, ripeteva il suo nome. Alice provò a tirarsi su. Aveva già la risposta pronta. Sto bene. Adesso mi alzo. Adesso…
– Sta arrivando l’ambulanza. – disse la Martino, pallida. Aveva le mani umidicce, ma Alice le strinse comunque per mettersi a sedere. Le offrirono un cioccolatino e un bicchiere di acqua e zucchero. L’acqua tiepida le diede la nausea. Gli infermieri del pronto soccorso dissero che doveva andare in ospedale. Si lasciò accompagnare sull’ambulanza, dove si stese su una barella perché aveva le vertigini. La fecero parlare al telefono con i suoi genitori. Succedeva tutto piano, tutto troppo lento, come i suoi battiti. Alice provò a contarli. Quaranta. Quarantadue. Ricominciò.
Nell’ambulanza aveva paura di toccare qualsiasi cosa. Teneva il ritmo premendo le mani sulla pancia così forte che un’infermiera chiese se le facesse male.
Arrivati in ospedale, i medici la visitarono e la trasferirono nel reparto di cardiologia. Passò la notte con sua madre addormentata sulla sedia accanto al letto. Suo padre le aveva portato il Duca Foca. Alice gli schiacciò il petto con la mano. Si addormentò con il peluche stretto nella mano.
La cardiologa si chiamava Elena Romano. Si presentò nella stanza di Alice durante il pranzo. La guardò masticare una fetta di pane e disse che aveva un figlio della sua età, che a suo figlio piacevano i cartoni animati. Piacevano anche a lei? Ad Alice non importava. Posso guarire? Che sta succedendo?
La Romano si sedette sulla sedia lasciata libera dalla madre di Alice. I suoi genitori non c’erano, erano tornati a casa per prendere dei cambi.
– Sai perché sei svenuta?
Perché andavo troppo piano. – Bradicardia. – scandì Alice.
La Romano sorrise. Aveva qualche anno in più della madre di Alice, fili grigi tra i capelli biondi, e portava gli occhiali. – Ci sono delle soluzioni, lo sapevi?
Alice rimescolò con il cucchiaio la poltiglia brodosa che le avevano servito spacciandola per riso in bianco. Alla parola soluzioni, cercò di immaginare come sarebbe stata la sua vita, se l’avessero curata.
– No.
– Possiamo metterti un pacemaker. Sai che cos’è?
Ne aveva sentito parlare. Lo avevano messo al nonno di Cristina.
Raddrizzò la schiena, la mano destra che tamburellava sulla coperta. Il Duca Foca era sul comodino.
– Il tuo cuore è un po’ pigro. Il pacemaker gli ricorda di battere.
Alice mangiò una cucchiaiata di riso insipido. – Ok – disse, guardando negli occhi la cardiologa.
Ma non voleva una cosa estranea nel corpo. Preferiva tenerselo così. E se era pigro, pazienza. Se la sarebbe cavata comunque. – Ma non lo voglio. – disse, con la voce di quando stava per piangere. Si pulì la bocca su un tovagliolo di carta. Lo ripiegò una, due, tre volte. – Ho paura. – ammise.
La dottoressa si tolse gli occhiali, li infilò nella tasca del camice. – Ti capisco, sai? – . Sollevò il peluche dal comodino. – Come si chiama? – chiese.
– Duca Foca. È di quando ero piccola.
– si affrettò a dire Alice, arrossendo.
– E ti fa compagnia?
Alice annuì. La Romano schiacciò il cappello a cilindro tra indice e pollice. – Il pacemaker non è un intruso, è un tuo alleato –. Rimise a posto il Duca.
Non mi serve un alleato. Non mi serve…
– Se mi opero, poi starò meglio? –. Alice si portò la mano al centro del petto, leggermente a sinistra, dove le avevano spiegato che si trovava il cuore.
– Sì, poi starai bene.
Uno, due, tre, ricomincia a contare…
– Va bene. – lo disse a sé stessa più che alla Romano.
Dopo l’intervento la riportarono nella sua stanza. Si sentiva strana, aveva sonno. Si mise ad ascoltare, più che guardare, un film in bianco e nero con suo padre, che sapeva le battute a memoria e spoilerava tutte le scene.
Alice cercava di resistere all’impulso di toccare il punto in cui era stata operata, alla ricerca dell’incisione che le avevano fatto per impiantare il pacemaker, coperta da un grosso cerotto bianco. Sua madre aveva appoggiato il Duca Foca sul cuscino, ma lei non lo prese neanche una volta, né contò i battiti. Adesso c’era qualcun altro – anzi, qualcos’altro – a farlo.
Passò qualche ora prima che la Romano tornasse da lei. La dottoressa aveva i capelli legati in una coda di cavallo. Strinse la mano ai suoi genitori, poi si sedette ai piedi del letto. – È andato tutto bene. – disse.
Alice si accorse di star stropicciando un lembo del lenzuolo. Lo lasciò andare.
– Posso tornare a casa? – Si indicò il petto. – Non si muove, vero?
La Romano scosse la testa. – Sei al sicuro.
Alice recuperò il peluche dal cuscino. Voleva trovare le parole giuste.
– Quando stavo male, – parlò al passato, sorprendendo sé stessa per prima. – lui controllava i battiti per me. – . Stavolta non arrossì. Era come se fosse passata una vita intera da quando aveva parlato del Duca Foca con la dottoressa. Sorrise. – Ci sono altre persone che ne hanno bisogno. Devi darlo a loro. – concluse, tornando seria e tendendo il peluche verso la Romano.
La cardiologa lo prese meccanicamente. Se lo rigirò tra le mani. – Sei sicura? – chiese. Squadrò il Duca Foca, dal cappello alle pinne. Aveva gli occhi lucidi.
– Sì. A me non serve più.