Il medico come artista Estratto dal libro “Nel cuore degli altri”

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Il medico come artista Estratto dal libro “Nel cuore degli altri”

Se tutti i pazienti fossero uguali la medicina sarebbe una scienza, ma poiché non c’è un paziente uguale a un altro la medicina è un’arte

Come l’arte aiuta a vivere e raccontare la medicina

Prologo

Chiamatemi Gabriele. D’altra parte, mi chiamavano così quando facevo il barista. Ancora oggi, con i malati, non sono diverso dal ragazzo che serviva caffè e Negroni nei bar di Rimini. Clienti o pazienti, in un bar o in una stanza d’ospedale, devo farli stare bene. Hanno tutti sete, l’implacabile sete del cardiopatico dovuta alla malattia e ai diuretici. Poi c’è l’altra sete. Il passato di barista mi ha aiutato […]. Non ci sono solo le notti di guardia e di massaggi cardiaci. Ci sono anche i giorni in ambulatorio con bambini spaventati: è allora che faccio roteare la bottiglia del gel come uno shaker, impugno la sonda dell’eco come un microfono e canto. Se ci pensate, nessun adulto ama prendere un caffè servito da un barista troppo serio. I bambini sono ancora più esigenti e riconoscono un medico che non sa ridere o cantare. Ho visto mio padre morire di scompenso per una malattia della valvola mitrale partita da un mal di gola dell’infanzia. Temo che mi sia sfuggito qualcosa che avrebbe potuto salvarlo. Dicono capiti a tutti i medici che perdono una persona cara. Prima della fine, lui ha avuto tutte le complicanze possibili, tra cui l’edema polmonare, lo stesso che avevo visto nei ragazzi in overdose stesi nei bagni dei bar. Il mio fragile padre non poteva essere per me un padre come tutti gli altri, e io non potevo essere il suo medico. Allora ho preso il mare e sono andato a cercare al suo posto la balena bianca che l’aveva menomato. Imbarcarsi se non altro aiuta a non ammazzare qualcuno sulla terraferma.

Estratto di un testo di 21 capitoli (uno per ogni paziente e ogni cardiopatia) che vola oltre le contingenze scientifiche per restituire ai medici la dimensione di artisti tra altri artisti, capaci di creare pratiche di cura e umanità agli antipodi dell’ipertecnologia e della medicina difensiva

Una volta cardiologo, figlio di cardiopatico, ho avvistato per la prima volta Francesco quando era ancora nel ventre di sua madre. Appena nato, ha solcato gli stessi mari di mio padre. Decine di ricoveri, interventi, anestesie. Col sole alto e quella sete da naufrago che non ti lascia mai. C’è acqua dappertutto e non puoi berla. Questo è il racconto di quello che ho visto e che ho potuto scrivere quando siamo tornati sulla terraferma. Lungo i capitoli scorrono le complicanze del cuore di Francesco e di mio padre. Le malattie fanno così male. A volte penso che siano un pretesto per parlare d’altro. E scappare.

Capitolo 1

21 GRAMMI

Cardiopatie congenite alla nascita “Come si fa a entrare in un cuore così piccolo?”, chiede la giovane madre, una ragazza di Rimini. I due genitori si tengono per mano.

 Lei stesa e lui seduto al suo fianco. Il medico passa lievemente la sonda ecografica sulla pancia della donna, come se dipingesse. Conta e misura tutte le parti del feto, tutti gli organi che attraverso gli ultrasuoni riecheggiano sullo schermo, prima in bianconero e poi con il rossoblù del Doppler: reni, occhi, arti, per finire sul cuore, l’unico organo che fa rumore o, meglio, che emette un suono musicale. Batte. Alla fine il bambino appare in un’immagine plastica, tridimensionale, finemente sgranata color oro, come una scultura di sabbia in riva al mare. Occhi, naso e mani sono perfettamente riconoscibili. Non c’è immagine, per quanto realistica, che superi lo stupore di quel suono, che convinca così irrevocabilmente del fatto che quella, madre, è una vita diversa dalla tua e dentro te. Quel suono, madre, anche fra cent’anni ti 

21 grammi: l’anima pesa come il cuore di un neonato Tra mito e realtà prende corpo una visione circolare della vita e inizia un viaggio nel cuore dell’uomo inteso come il miocardio con tutte le sue patologie, ma anche come sede abusiva dell’anima, simbolo di tutte le espressioni artistiche e sentimentali

commuoverà come la prima volta. E quel suono inizia ventun giorni esatti dopo l’incontro di due gameti, due cellule che fanno l’amore senza nemmeno sapere cos’è l’amore. Come chiunque, del resto. I due genitori, che non sanno ancora come si sono incrociate le braccia delle X e delle Y tra i 46 cromosomi, hanno già pronti i nomi. Diciamo loro che è un maschio. XY: allora sarà Francesco. Parlando di un cuore “piccolo”, la madre ha avuto un sesto senso, ma il cuore di Francesco è ancora più piccolo di quello che lei immaginava. Francesco ha la più temibile delle cardiopatie congenite: ipoplasia del cuore sinistro. La parte sinistra del cuore, quella che per tutta la vita dovrà reggere la maggior parte del mestiere di battere, è di fatto inesistente. In sostanza il cuore non ha quattro camere, ma due. Dobbiamo dirlo chiaramente ai genitori. Possono ancora scegliere di interrompere la gravidanza. A ottobre Francesco nascerà. Ora i due genitori prenderanno l’A14 per tornare a Rimini. Nei centodieci chilometri di buio asfaltato quel suono ecografico li rincorrerà, e continuerà a farlo a casa, nel silenzio della notte, incessante come la sistole e la diastole della risacca sulla battigia. Forse crederanno di averlo già sentito nell’affanno, come si crede di sentire il mare in una conchiglia all’orecchio. Già, Rimini. Mentre i due genitori vengono accompagnati nella stanza accanto, un giovane medico olandese che ha assistito all’ecografia chiede dov’è Rimini. Il cardiologo è con la testa al

Il cuore è un barista che shakera e versa sangue come un pazzo Il cervello è il suo cliente più impaziente, uno che se ne va dopo pochi minuti se non viene servito con la gittata sistolica da cento millilitri di un Martini o di un Bloody Mary

colloquio che dovrà sostenere e automaticamente risponde: “A metà strada tra Ancona e Venezia”. Poi si accorge che è una frase di Alain Delon ne La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. All’inizio del film un malinconico Delon, nei panni del tormentato professor Daniele Dominici, cammina spedito sul molo deserto di Rimini con le mani insabbiate nelle tasche del suo iconico cappotto cammello. A un certo punto gli si avvicina una piccola barca sperduta nel mar Adriatico con una coppia di coniugi a bordo. L’uomo gli chiede dove siano mai finiti e il professor Dominici risponde: “Rimini, a metà strada tra Ancona e Venezia”. 

Il mare verrà tra pochi mesi. Il mare è malato. Il cuore di un neonato è grande come una bella fragola e pesa 21 grammi. Se entrate nella serra di un reparto ostetrico, su cento fragole ne troverete una malata […]. Non c’è rischio più grande per un neonato di nascere in un Paese dell’Africa subsahariana. Il cuore è l’organo muscolare, vascolare e nervoso più complesso che abbiamo. In quel pugno di carne contrattile sono racchiuse forze meccaniche, idrauliche ed elettriche primordiali. Eppure tanto sofisticate, che qualcosa si può inceppare per una sola lettera sbagliata nell’intera biblioteca di Dna chiusa dentro il nucleo cellulare. La voce delle onde racconta anche che tutto è doppio, va e viene. Nel Doppler ci sono due colori primari, il rosso e il blu. La sonda cerca l’onda, se le va incontro è rossa come una rosa, se si allontana è blu come un addio. Quello del cuore è un suono semplice e necessario. Non a caso il primo senso a svilupparsi nel feto è l’udito, e non per ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto del babbo, ma proprio per poter sentire la madre nel buio pesto di un lockdown di nove mesi. Il nascituro sente quella madre, il cuore della propria madre – cor, cordis in latino – e con quel la accorda il proprio cuore; è grazie a quella voce che può regolare il proprio orologio biologico. Il feto sente, in caso, anche il battito del gemello, con cui si può sincronizzare (gli elettrocardiogrammi dei gemelli hanno parametri identici). Se sarà fortunato, quei 21 grammi avranno davanti anche cento anni di desideri e disastri da ossigenare con quattro miliardi di battiti e quattrocento milioni di litri di sangue. Sangue da pompare o, per dir meglio, da suonare con un’orchestra di strumenti a percussione, le quattro valvole; di archi: i fili sottili che sostengono le due valvole atrioventricolari sembrano corde di violino; di fiati: le vene e le arterie dove il sangue entra ed esce sbuffando tra legni e ottoni, sublime come un oboe, fragoroso come una tromba o sordo come un basso tuba. Se il cuore è un organo, allora che suoni. L’orchestra comincia a suonare 21 giorni dopo il concepimento. Prima è un tubo di cellule che si muove come un bruco e poi, per metamorfosi, assume la grazia cinetica di una farfalla con quattro camere e quattro valvole al posto delle quattro ali.[…] Ma qual è il peso giusto del cuore? Invecchiando, i 21 grammi del cuore neonato diventano i tre etti di quello adulto. E c’è di più: il cuore ha anche un peso simbolico. Infatti facciamo le cose a cuor leggero e abbiamo il cuore pesante, amiamo con tutto il cuore, cose e persone ci stanno a cuore. 

Gli antichi Egizi pesavano il cuore per decidere chi meritasse la vita eterna. Questa pratica era detta psicostasia, letteralmente “pesatura dell’anima”. Nel 1907 uno scienziato americano, Duncan MacDougall, si mise in testa di scoprire quanto pesasse l’anima. Per farlo pesò dei malati terminali un attimo prima e un attimo dopo l’ultimo respiro. Con questo metodo ‘sperimentale’ stimò che l’anima appena esalata fosse 21 grammi, poiché tale era mediamente la differenza tra le due pesate. Scienza, millanteria o poesia, non può non colpirci che il cuore di chi nasce pesi esattamente come l’anima di chi muore: 21 grammi. Quasi uno scambio, un doppio senso, un andare e venire che trova compimento tangibile nel trapianto, l’incontro tra una disgrazia improvvisa e una malattia irreparabile. Un incontro senza esclusione di corpi che il progresso medico riporta in parità, quando il tabellone spietato della vita vedrebbe il genere umano sotto di due. Nel film di Iñárritu 21 grammi, il trapianto cardiaco è il punto di incontro e di scambio di anime e corpi inquieti. Qui, come spesso accade nella vita vera, un cuore emerge vivo da un incidente d’auto mortale. […] Sono di guardia in terapia intensiva 21 anni dopo quel pomeriggio dell’ecografia fetale di Francesco. Ero uno dei medici presenti in ginecologia, quello di Rimini che usava i film come atlanti sentimentali. Francesco viene ricoverato nello stesso ospedale dove è nato e dove è stato operato più volte al cuore. Sembra troppo tardi per un trapianto. Il fegato, i reni e i polmoni sono deteriorati dalla cardiopatia. È notte fonda. Francesco vuole chiedermi una cosa, ma non a voce, anche se può parlare. La scrive sul cellulare e me lo passa chiudendo gli occhi grandi e liquidi. Sua madre è seduta ai piedi del letto. Da giorni il cuore non emette che l’ombra delle onde. Dopo più di trenta ricoveri e una dozzina di interventi di cui due al cervello, Francesco sente che neanche lo schianto d’auto più generoso può salvarlo. Francesco mi chiede di spingere l’acceleratore come Alain Delon sulla statale di Rimini prima dello schianto. Francesco vuole entrare a occhi aperti nella sua prima notte di quiete. ♥

Chi sa solo di medicina non sa niente di medicina

Nel presentare circa 3 anni fa la nuova Rubrica “Cardiologi scrittori” segnalavo, riferendomi agli amici colleghi-scrittori di cui iniziavamo a pubblicare i loro racconti, al di là delle loro indubbia bravura, “quello che è almeno per me, un amichevole mistero: come siano riusciti o riescano a trovare il tempo di scrivere così bene tra guardie notturne e festive, ambulatori, consulenze, riunioni e convegni, budget e aziendalizzazione”. A questa curiosità tutt’ora insoluta, per Gabriele Bronzetti si aggiunge, lo confesso, anche una sottile invidia. Perché un esperto cardiologo pediatra, responsabile del Programma Dipartimentale di Cardio Pediatria del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, operatore umanitario in Africa, collaboratore di importanti quotidiani nazionali, columnist del Corriere di Bologna, musicista, che ha scritto oltre 20 libri, deve nascondere più di un segreto nella gestione del suo tempo. Assieme, e qui non c’è mistero, alle capacità di svariare con eleganza tra casi clinici complessi, rimandi e ricordi letterari, musicali e cinematografici, “connessioni, non coincidenze” che diventano utili rifugi, colte vie di fuga dalla tensione e dalle angosce della malattia e dalle sue, a volte inaccettabili, conseguenze. Come dimostrano i 21 casi raccolti nel suo ultimo libro “Nel cuore degli altri”, ben recensito tra l’altro da Stefano Urbinati nel numero di gennaio del Giornale Italiano di Cardiologia. Dimenticavo: il Dottor Bronzetti ha anche un passato da barman. E siccome l’arte della preparazione dei cocktail è saper combinare le giuste dosi dei vari componenti, e se le sue capacità di miscelare cardiologia, storie ed umanità con Arti varie sono pari ai cocktail che prepara, mi prenoto da subito per un prossimo Martini (shaken o stirred?). Intanto ecco la prima storia del suo coinvolgente ed intrigante libro.

Giuseppe Di Tano

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