Gioia e le altre (Tre storie con una morale)

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Gioia e le altre (Tre storie con una morale)

Questo testo ha ricevuto il primo premio nella sezione “Saggi” del Premio Cronin 2023 16a edizione, concorso letterario per medici

Riflessioni sull’esercizio contemporaneo della medicina a partire dalla storia vera di tre giovani donne. I nomi sono di fantasia

Premio Cronin
di Giuseppe Di Tano e Mario Chiatto

Il Premio Cronin è un importante Concorso Letterario Nazionale rivolto a medici, giunto alla XVI Edizione e costantemente recensito sulle pagine culturali delle maggiori testate giornalistiche. È stato istituito nel 2007 dalla sezione di Savona “G.B. Parodi” della Associazione dei Medici Cattolici Italiani (AMCI) con l’intento di offrire ai medici la possibilità di mettere in luce attraverso la scrittura l’altra metà della loro anima, favorendo un affascinante connubio fra due culture: quella scientifica e quella umanistica. Prevede quattro autonome sezioni, Poesia, Narrativa, Teatro e Saggistica, ognuna delle quali si avvale di una propria giuria, composta da sei prestigiosi e noti letterati.
Nell’edizione di quest’anno il primo premio “Cronin saggistica 2023” e il premio speciale “Giuseppe Moscati” sono stati assegnati rispettivamente al saggio “Gioia e le altre” e al racconto “Giustizia Divina” entrambi scritti dalla Dottoressa Maria Frigerio, Targa d’Oro ANMCO, Direttore fino a dicembre 2021 della SC Cardiologia 2 – Insufficienza Cardiaca e Trapianto dell’Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano. Da questo numero, iniziamo a pubblicarli, con grande piacere.

Gioia
Gioia, poco più di vent’anni, nessuna storia di cardiopatia, non altre malattie note, ultimamente si presenta almeno una volta al mese all’ambulatorio del suo medico denunciando nausea, inappetenza, dolore nella parte superiore dell’addome che si accentua dopo i pasti, e insonnia. Ogni volta il dottore cerca di rassicurarla, e ogni volta lei torna a casa con l’impressione di non essere stata presa sul serio. Una notte si sente così irrequieta da non riuscire a stare sdraiata nel letto, e si fa accompagnare dai genitori al Pronto Soccorso dell’ospedale del paese, che la congeda con la diagnosi di “dispepsia funzionale”. A questo punto, su richiesta del curante, Gioia viene sottoposta a visita psichiatrica, gastroscopia e visita gastroenterologica. Il risultato è una diagnosi di “sindrome ansioso-depressiva e disturbi del comportamento alimentare”, e di “gastropatia da reflusso di modesta entità”, per cui le vengono prescritti una combinazione di ansiolitici e antidepressivi (tre farmaci che però Gioia, che rifiuta l’interpretazione psicosomatica dei suoi disturbi, non assume), e un comune antireflusso, che non ottiene alcun effetto. Poche settimane dopo, sempre di sera, la donna si presenta nuovamente in Pronto Soccorso. Questa volta però è venuta in città. E qui, finalmente, viene diagnosticato uno scompenso cardiaco dovuto a una gravissima cardiomiopatia dilatativa. La prima reazione di Gioia e dei suoi familiari è quasi di sollievo (“finalmente hanno capito che non sono/non è pazza”), ma non c’è tempo di rifiatare, perché lo scompenso è ormai molto avanzato, tanto che potrebbe essere necessario un trapianto di cuore con urgenza – ragion per cui si organizza il trasferimento nel nostro ospedale. Frastornati e un po’ confusi, la malata e i suoi genitori si domandano (ci domandano) se una diagnosi più precoce avrebbe permesso di arrestare o almeno rallentare la progressione della cardiopatia (forse: una discreta quota di pazienti con una malattia del muscolo cardiaco migliora significativamente con le terapie appropriate); se dopo il trapianto Gioia potrà fare una vita normale, incluso avere dei figli (quasi: il trapianto non garantisce una aspettativa di vita equivalente a quella delle persone sane, ma per diversi anni la qualità di vita è generalmente buona o molto buona, e se il decorso post-trapianto non è complicato si può prendere in considerazione la gravidanza); se la stessa malattia che ha danneggiato il suo cuore potrebbe colpire anche quello trapiantato… (improbabile: è un’evenienza molto, molto rara, legata a cause specifiche, che potranno essere identificate o escluse dopo l’intervento, esaminando il cuore nativo di Gioia). Trovo ammirevole che queste persone, costrette in meno di ventiquattr’ore a un drammatico cambio di prospettiva, sappiano scegliere le domande giuste, logiche, in un certo senso necessarie. E che ascoltino con fiducia, nonostante tutto, le nostre risposte. Anche solo per questa loro compostezza meriterebbero risposte più sicure, e più rassicuranti. Invece l’unica cosa sicura è che non si può riavvolgere il tempo. Purtroppo non abbiamo una prospettiva facile da offrire a questa giovane donna: anche quella del trapianto (che tutti ci auguriamo si realizzi al più presto, perché non si tratta più di scompenso ma di shock, e Gioia adesso è intubata e assistita con un sistema meccanico temporaneo, che può tenerla in vita per qualche giorno, al massimo per qualche settimana) è piena di incertezze.

Lia
Lia, una quindicenne cinese che vive in Italia da pochi anni, ha imparato bene la nostra lingua. Non si può dire lo stesso dei suoi genitori che, quando l’accompagnano al Pronto Soccorso, una sera di fine inverno, portano con sé un’altra persona (un parente, o forse un amico) perché faccia da interprete. Con il suo aiuto si apprende che la ragazza ha avuto qualche giorno prima un brutto raffreddore con febbre alta e mal di testa. Sembrava star meglio, ma nelle ultime ventiquattr’ore era nuovamente peggiorata. Ancora febbre? Tosse? No, ma era stanca, affaticata, aveva mal di pancia… Forse non voleva tornare a scuola? No, a scuola va sempre volentieri… quella mattina stava male davvero, poi aveva vomitato cinque-sei volte. L’infermiere del triage assegna Lia al chirurgo di turno. La pancia è morbida sotto la mano del medico, al momento non c’è dolore, la radiografia e l’ecografia dell’addome sono normali: conclusione, “non urgenze chirurgiche in atto”. Però gli esami del sangue sono allarmanti, e si chiama l’internista: c’è un importante danno acuto del fegato, un aumento degli indici di infiammazione, un’insufficienza renale, e anche un aumento degli enzimi muscolari, come si può osservare per effetto di sostanze tossiche. Potrebbe trattarsi di un’epatite fulminante, nei giovani una causa da non trascurare è il consumo di sostanze illecite, accompagnate o meno dall’alcool. Questa sembra una ragazzina tranquilla, ma non si può mai dire. Si richiamano i genitori e l’interprete: Lia non è uscita, non ha ricevuto amici, in casa non girano ragazzi più grandi, con loro vive soltanto la nonna paterna, non le hanno dato medicine. Però è proprio Lia, che pure sembra un po’ assonnata, un po’ intorpidita, distante, a ricordare che invece sì, la nonna le ha dato qualcosa, delle tisane, parrebbe, fatte con un preparato della medicina tradizionale cinese. Impossibile conoscerne la composizione, forse anche per questo risulta facile attribuire a questo prodotto misterioso la responsabilità dell’intossicazione. Inoltre non c’è molto tempo per pensarci sopra: Lia adesso presenta alterazioni metaboliche e disturbi del ritmo che compromettono il circolo. La gestione passa dunque all’anestesista, che dovrà anche cercare un posto presso un ospedale autorizzato al trapianto di fegato, e organizzare il trasferimento. Nel frattempo la cardiologa di turno, chiamata in consulenza per le aritmie, esegue un ecocardiogramma che mostra una riduzione severa della contrattilità cardiaca. Il dato, imprevisto, potrebbe dar luogo a ipotesi diagnostiche diverse. Ma l’anestesista è impegnata nel preparare la paziente per il trasferimento, che avverrà a breve. Aggiunge il referto dell’ecocardiogramma al foglio di dimissione, e si imbarca con Lia sull’ambulanza attrezzata. La notte sta per finire. A metà mattina i colleghi della terapia intensiva del secondo ospedale, preoccupati dal quadro cardiocircolatorio che non migliora nonostante la ventilazione meccanica e i farmaci di supporto, chiedono di poter trasferire Lia nella rianimazione del nostro Dipartimento. C’è una grave insufficienza multiorgano, e la bassa portata cardiaca è attualmente il problema principale. Se poi risultasse davvero necessario, il trapianto di fegato si può fare anche a Niguarda. Da noi c’è un vero e proprio “comitato d’accoglienza” pronto a ricevere Lia: oltre agli anestesisti – rianimatori e agli infermieri dell’unità intensiva, ci sono cardiochirurghi, cardiologi con diverse competenze superspecialistiche, un anestesista del team del trapianto di fegato, e il loro chirurgo è stato allertato. Con i dati preliminari disponibili abbiamo discusso collegialmente il caso: pensiamo che si tratti non di una epatite ma di una miocardite, e che il danno epatico e renale siano conseguenti alla disfunzione del cuore. Potrebbe essere necessario fare una biopsia del cuore per confermare la diagnosi, e impiantare un sistema di assistenza circolatoria temporanea per migliorare la funzione del fegato e dei reni, e guadagnare tempo affinché l’infiammazione possa regredire, permettendo così al cuore di recuperare la sua normale contrattilità. La sala dove eseguire queste procedure è già pronta, il personale è presente. Lia arriva nel primo pomeriggio: c’è da spostare la paziente, da sostituire i dispositivi per il monitoraggio e per l’infusione dei farmaci, da misurare i parametri vitali, da mandare un campione di sangue in laboratorio… c’è chi assiste la paziente, chi raccoglie le consegne, chi scorre i documenti che ci hanno portato… un giovane collega si avvicina con l’ecocardiografo, ma non c’è tempo. Gli esami di laboratorio evidenziano un danno cardiaco massivo, dal catetere vescicale non esce una goccia (i colleghi riferiscono che la ragazza non urina da almeno dodici ore). Non c’è un minuto da perdere, il programma che avevamo delineato va attuato al più presto. Speriamo di essere ancora in tempo.

Katia
Siamo nella cosiddetta “prima ondata” della pandemia da SARSCoV- 2, e gli ospedali (dopo essere stati, purtroppo, luoghi di rischio di contagio), sono stati orientati prevalentemente alla cura dei pazienti con insufficienza respiratoria da Covid-19, anche a scapito dell’attenzione ai portatori di altre malattie. Katia è una casalinga di circa trentacinque anni, sposata, con due figli. Il marito, come lei immigrato molti anni fa da un paese dell’Est Europa, ha un lavoro regolare. Vivono in un paese di mezza collina della provincia lombarda, da qualche settimana hanno traslocato in una casetta indipendente con un pezzo di giardino. Mancano pochi giorni alla Pasqua, suo marito può stare a casa con i bambini e Katia, che non ha dormito tutta la notte, al mattino presto decide che è il momento di farsi vedere da un medico, di raccontare di quella fatica a respirare che da qualche tempo la prende tutte le sere quando si sdraia nel letto. Il passaggio di Katia nel Pronto Soccorso dell’ospedale locale è il più breve che io abbia mai visto. Nel verbale il motivo dell’accesso è sintetizzato così: “Dispnea serale/ notturna, bene di giorno.” Sono riportati alcuni parametri vitali: Frequenza cardiaca 110 battiti al minuto, frequenza respiratoria 20 atti respiratori al minuto, temperatura 36°C, saturazione arteriosa di ossigeno 98%. La diagnosi di dimissione è “Stato ansioso”, seguita dal consiglio “Valutazione presso il medico curante.” Tra la registrazione dell’ingresso e la firma elettronica che chiude il verbale, sedici minuti esatti. Non passa un mese e Katia è di nuovo in Pronto Soccorso, in un altro ospedale. La visitano, sospettano che abbia un versamento pleurico, e le trovano una pressione molto, troppo bassa. Prende così il via un percorso un po’ tortuoso ma appropriato e veloce che, con una tappa intermedia presso l’ospedale di riferimento della provincia, indaga la paziente sul versante sia polmonare sia cardiaco. Il giorno successivo Katia approda nella terapia intensiva del nostro Dipartimento, in condizioni e con prospettive non molto diverse da quelle descritte nel caso di Gioia.

Epilogo e morale
Gioia e Katia sono state trapiantate e oggi stanno molto bene. Katia è tornata a occuparsi della sua famiglia. Gioia ha trovato un lavoro, è andata a vivere con il fidanzato, e l’ultima volta che l’abbiamo vista in ambulatorio ci ha detto che vorrebbero avere un figlio. Non è stato tutto facile. Le due donne sono arrivate al trapianto sapendo che non avrebbero potuto sopravvivere senza, e che dopo l’intervento sarebbero stati necessari molti farmaci e molti controlli, ma ignoravano cosa le aspettasse davvero. Solo dopo avevano appreso, sperimentandolo sulla propria pelle, che il ritmo dei controlli era, almeno nei primi mesi, molto serrato e impegnativo; che i controlli implicavano anche un esame invasivo e come minimo fastidioso come la biopsia del cuore (nel primo anno post-trapianto ne sono previste più o meno una dozzina, ricordo un paziente che circa a metà del percorso disse al medico che aveva appena “pizzicato” pochi millimetri cubi di tessuto dalla parete interna del suo ventricolo destro: “Se lo volevate indietro potevate dirmelo subito, invece di portarmelo via un pezzetto alla volta”); che poteva essere necessario prendere medicine per parecchie settimane (in qualche caso per la vita intera) per proteggersi da infezioni che nei sani sarebbero state del tutto asintomatiche; che alcuni farmaci anti-rigetto potevano avere effetti indesiderati di carattere estetico abbastanza spiacevoli, specie in una giovane donna, e ci può volere un po’ di tempo per trovare l’alternativa giusta… Entrambe comunque si sono adattate, ciascuna a suo modo. Katia parla poco, è molto riservata, sembra assorbire gli eventi senza grossi traumi, determinata a fare tutto il possibile per stare bene in modo da poter crescere i suoi bambini. Gioia è più istintiva, esuberante, un po’ instabile nell’umore: forse una volta riacquistato il benessere è tornata a pensare alla sua esperienza passata, sta di fatto che è molto sensibile all’attenzione dello staff di cura nei suoi confronti, a volte sembra temere di essere trascurata. Ma con l’andare del tempo e con l’aiuto della psicologa sembra più rinfrancata e serena. Quanto a Lia, in poco più di una settimana il suo cuore, che la biopsia aveva confermato essere stato colpito da una miocardite, ha completamente recuperato la sua funzione. Anche il fegato si è normalizzato rapidamente, invece ci sono voluti due mesi prima che i reni riprendessero a funzionare in autonomia, due mesi durante i quali Lia è stata sottoposta a dialisi tre volte alla settimana. Uscita dalla terapia intensiva, Lia era stata trasferita nel mio reparto, per essere monitorizzata e seguita nella mobilizzazione e nella ripresa dell’attività fisica. Teneva i libri di scuola sul comodino, durante la dialisi faceva i compiti. L’abbiamo rivista in ambulatorio poco dopo la dimissione e poi, periodicamente, a distanza. Lia ha potuto sospendere tutte le terapie, ed è completamente guarita. Tutto è bene quel che finisce bene, si dice. Gioia, Lia e Katia possono (forse secondo alcuni dovrebbero) considerarsi fortunate, e noi possiamo essere soddisfatti del loro esito e del nostro lavoro. Invece non riesco a smettere di pensare che in tutte loro siamo arrivati tardi, che questo ritardo forse le ha private di opportunità, di alternative potenzialmente migliori, e sicuramente le ha esposte a un rischio molto alto di fallimento. Era quasi un anno che Gioia chiedeva aiuto. Con una diagnosi più precoce e con le cure appropriate forse sarebbe migliorata, e non sarebbe stato necessario il trapianto. O forse no. Però almeno si sarebbe potuto provare. E se non fosse migliorata, avrebbe comunque avuto più tempo per conoscere la malattia e le sue implicazioni e, nel caso, per prepararsi all’ipotesi del trapianto. Se noi medici non fossimo riusciti a guarire il suo cuore, avremmo potuto almeno darle un po’ di tempo e, anche, usare un po’ del nostro tempo per starle vicino, per aiutarla ad accettare e comprendere la sua condizione, e a fare le sue scelte in modo consapevole.
Katia ha sottovalutato o trascurato i suoi disturbi per settimane se non per mesi, occupata dalla famiglia, dalla casa nuova, dal trasloco, alle cui fatiche è stato facile, per lei, attribuire la responsabilità del suo malessere. Però quando si è decisa a chiedere aiuto ha trovato di fronte a sé un servizio sanitario distratto, focalizzato su un’unica emergenza, che non ha neppure preso in considerazione che, se una madre di famiglia viene in Pronto Soccorso alle sei del mattino in epoca di pandemia, è possibile se non addirittura probabile che abbia veramente un problema. Forse un mese non avrebbe fatto la differenza e si sarebbe comunque arrivati rapidamente all’indicazione al trapianto, ma anche nel suo caso le sarebbe stato se non altro concesso un po’ di tempo, e si sarebbe potuto evitare di arrivare alla meta in condizioni di assoluta emergenza, con un rischio molto alto di morte, sia in attesa sia dopo il trapianto. Lia, affetta da una malattia cardiaca reversibile, ma che si era presentata in forma gravissima e ad evoluzione molto rapida, ha rischiato di non ricevere in tempo le cure necessarie. Ancora poche ore (se non poche manciate di minuti), e l’insufficienza multiorgano conseguente alla bassa portata cardiaca sarebbe arrivata a un punto di non ritorno, e allora nemmeno i suoi quindici anni l’avrebbero potuta salvare.
Gioia, Katia, Lia: tre pazienti (due donne e una ragazza), tre esempi di ritardo nella diagnosi e quindi nella cura, un ritardo rispettivamente di circa un anno, un mese, e un giorno, che avrebbe potuto costare a ciascuna di loro la vita. Certo, è molto facile criticare a posteriori. Riflettere sulla loro storia non ha lo scopo di giudicare se qualcuno abbia mancato, e in quale misura, ma quello di cercare di fare meglio con le prossime pazienti (e i prossimi pazienti) che si presenteranno in futuro.
La medicina contemporanea si affida sempre più spesso a protocolli di diagnosi e cura standardizzati, che si fondano su stime probabilistiche (probabilità di ammalare, probabilità che una certa condizione sia grave o minacciosa, probabilità di rispondere favorevolmente a un certo trattamento…), la cui affidabilità dipende in buona misura dalla numerosità della casistica analizzata. Le conoscenze derivate da studi di popolazioni o gruppi di pazienti definiscono una cornice di riferimento, ma nella pratica clinica va ricordato che ciò che è valido (vero, applicabile, raccomandato) nella maggioranza non necessariamente resta tale nel singolo individuo. In una adolescente, e in una donna di meno di quarant’anni, che non fuma e non abusa di alcool o altre sostanze, che non ha una cardiopatia congenita nota dall’età infantile né altri fattori di rischio (come una gravidanza recente o in atto, o una chemioterapia per malattia tumorale, leucemia, o linfoma), la probabilità di sviluppare una grave malattia di cuore è inferiore all’uno per mille. Per contro, la probabilità di manifestare qualche disturbo dell’umore supera il 5%. Se poi la donna non lamenta i sintomi più tipicamente associati alle malattie di cuore (affanno, dolore al petto, palpitazioni, gonfiore alle caviglie), ma riferisce dolore allo stomaco, mancanza di appetito, perdita di peso, difficoltà a prendere sonno, o una generica stanchezza, può accadere che venga considerata ansiosa, o depressa, o affetta da un disturbo del comportamento alimentare, e che sia affidata allo psichiatra. In alternativa, si pensa a un problema dell’apparato digerente. Lo stesso può accadere di fronte a giovani pazienti maschi, anche se i medici sono meno propensi a interpretare i sintomi dei maschi come di natura funzionale o psicosomatica. La difficoltà ad alimentarsi e il mancato incremento del peso sono sintomi tipici dell’insufficienza cardiaca nei bambini piccoli. Nell’adulto, i disturbi per così dire “digestivi” sono stati tradizionalmente associati alle forme più avanzate di scompenso cardiaco, e solo dallo scorso anno sono stati elencati tra i possibili sintomi d’esordio nelle linee-guida per la diagnosi e la cura dell’insufficienza cardiaca della Società Europea di Cardiologia. Di contro, le linee-guida sull’approccio alla dispepsia destinate ai medici di medicina generale e di pronto soccorso non citano l’insufficienza cardiaca tra le possibili cause. Ci vorrà parecchio tempo e molta attenzione per colmare questo gap informativo e formativo, a partire dall’insegnamento teorico e pratico della medicina. Qualcuno potrebbe pensare che il problema non è poi così importante, dal momento che si tratta di casi improbabili, di pochi pazienti – giovani e sfortunati, è vero, ma comunque pochi. Bisogna però riconoscere che l’approccio clinico è e deve essere radicalmente diverso da quello epidemiologico. L’epidemiologo studia e confronta gruppi di soggetti accomunati, classificati o sottoclassificati da uno o più criteri (es. la residenza in un certo territorio, l’abitudine al fumo, la presenza di una determinata malattia, l’appartenenza a una certa fascia d’età… ), mentre il clinico è chiamato a prendersi cura dei singoli: se la storia, i sintomi e i segni sono compatibili con una malattia grave (in inglese si parla di worst case scenario, il peggior scenario possibile), questa merita di essere esclusa o accertata, anche se la sua frequenza è bassa. È la gravità – non la frequenza – di una condizione (e delle sue possibili conseguenze) che guida – o dovrebbe guidare – l’azione del clinico. In diversi ambiti della nostra vita, per obbligo o per scelta, cerchiamo di tutelare al massimo noi stessi, i nostri cari, i nostri beni, nei confronti di eventi potenzialmente catastrofici. Quanto più l’evento può essere grave, tanto più cerchiamo di proteggerci, anche se l’evento è poco probabile, anche se il dispositivo che ci dovrebbe proteggere ha un’efficacia limitata. Prendiamo ad esempio gli airbag: la stragrande maggioranza dei veicoli viene avviata alla rottamazione senza che questi dispositivi siano mai entrati in funzione, quindi si potrebbe dire che molto raramente siano effettivamente utili, e tuttavia fanno parte della dotazione standard di sicurezza di tutte le nostre automobili. Ancora: nel 2020, a quarant’anni dalla loro introduzione, uno dei principali produttori di airbag ha vantato il fatto che questi dispositivi avevano salvato la vita di circa 90.000 persone in tutto il mondo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, dal 2000 in avanti, ogni anno muoiano per incidente stradale più di un milione di persone, il 30% circa delle quali si trova a bordo di veicoli a quattro ruote (https://apps.who.int/ iris/bitstream/handle/10665/277370/ WHO-NMH-NVI-18.20-eng. pdf?ua=1). Si tratta di più di sei milioni di morti in vent’anni: a fronte di queste cifre, la quota di morti evitate (i salvati) dalla presenza degli airbag può essere considerata marginale, tuttavia, visto che possiamo averlo, perché dovremmo rinunciare a questo sia pur modesto surplus di protezione? La buona notizia è che in medicina abbiamo a disposizione uno strumento relativamente rapido, non troppo costoso e abbastanza accurato, per confermare o escludere il sospetto di un’insufficienza cardiaca: si tratta del dosaggio, nel sangue, di una sostanza denominata peptide natriuretico di tipo B, la cui produzione aumenta nel nostro organismo in risposta a un sovraccarico cardiocircolatorio. La cattiva notizia è che in nessuna delle nostre tre pazienti era stato eseguito il dosaggio di questo marcatore. Perché? I disturbi di Gioia sono stati di fatto ignorati per mesi dal suo medico di medicina generale che, a detta della paziente, era convinto che fossero di natura funzionale – e tali sono stati considerati anche al suo primo accesso in Pronto Soccorso. Anche la dispnea di Katia è stata classificata sbrigativamente come su base psicologica. Eppure qualcosa di oggettivamente anormale è registrato nei loro verbali: la frequenza cardiaca era di 110-120 battiti al minuto a riposo, decisamente alta per un cuore sano. Ma il pregiudizio di genere (le donne sono prima di tutto ansiose o “nervose”) porta a imputare al fattore psicologico anche la tachicardia, e se, equivocando sull’interpretazione dei dati epidemiologici, siamo lontani dal pensare che l’insufficienza cardiaca possa interessare una giovane donna, e se in più la fila di pazienti in attesa in ambulatorio o in Pronto Soccorso è lunga, o, ancora peggio, se siamo travolti da un’epidemia senza precedenti, difficilmente saremo disponibili a guardare e ad ascoltare quella singola persona, quella specifica paziente, con occhi orecchi e mente liberi da preconcetti e da pregiudizi. Il caso di Lia era obiettivamente più difficile, e il margine temporale per un intervento efficace si riduceva molto rapidamente. Però l’aumento marcato degli enzimi muscolari avrebbe potuto far sospettare la possibile coesistenza di un danno del muscolo cardiaco, che avrebbe potuto essere confermato o escluso con il dosaggio di marcatori specifici per il cuore. Il ripensamento della diagnosi, e quindi delle priorità e delle strategie di trattamento, sarebbe stato anticipato di qualche ora. Più tardi, il riscontro di disturbi del ritmo, il dato dell’ecocardiogramma, la caduta della pressione arteriosa e l’assenza di produzione di urina avrebbero dovuto far riconsiderare la diagnosi. Anche in questo caso è entrato in gioco un pregiudizio, legato alla provenienza della paziente. Va premesso che la diagnosi di “Insufficienza epatica acuta su verosimile base tossica, da consumo di preparato della medicina tradizionale cinese” è meno fantasiosa di quanto possa apparire: le epatiti tossiche causate dall’assunzione di sostanze di origine naturale esistono, e, secondo quanto riportato dagli stessi ricercatori locali, la loro incidenza è più alta in Cina rispetto all’Europa o alle Americhe. Comunque, se al posto di un beverone misterioso, che per quanto ne sapevamo, insieme a erbe a noi ignote o perché esclusivamente autoctone o perché l’interprete non ne conosceva il nome in italiano, avrebbe potuto contenere polvere di unghie di pipistrello o scaglie di pangolino tritate, la nonna avesse dato a Lia un più rassicurante infuso di malva salvia o finocchio addolcito con un po’ di miele, sarebbe stato molto più facile distaccarsi dall’ipotesi di epatite tossica, soprattutto dopo che era stata riscontrata la disfunzione cardiaca. Purtroppo, la somma di aspetti organizzativi (ad esempio i diversi passaggi nella presa in carico della paziente, e la convergenza delle responsabilità di gestione clinica e di pianificazione logistica sull’unica figura dell’anestesista – rianimatore, per giunta in una paziente critica e a rapida evoluzione peggiorativa) e di coincidenze temporali (l’ambulanza pronta per il trasferimento giusto quando si era appena conclusa la valutazione cardiologica) ha contribuito a far rinunciare, nei fatti, a prendere in considerazione ipotesi alternative al sospetto diagnostico iniziale. Gli anglosassoni indicano con il termine di anchoring (ancoraggio, essere ancorati) la riluttanza ad abbandonare la prima ipotesi a favore di alternative, che possono nascere a partire da un punto di vista diverso, o sulla scorta di nuove informazioni o evidenze. L’anchoring appartiene alla categoria dei cosiddetti bias cognitivi, cioè degli errori di giudizio o di interpretazione della realtà cui siamo indotti dall’attaccamento a conoscenze o credenze precostituite – in altre parole, dettati dai nostri pregiudizi. Il Professor Attilio Maseri, una delle menti più acute della cardiologia italiana degli ultimi decenni, recentemente scomparso, invitava i giovani colleghi a focalizzare la loro attenzione sugli outliers, cioè sui pazienti che stanno fuori dai confini del consueto, del probabile, o dell’atteso. Prima di tutto però è necessario saperli identificare. Perché prima di qualunque indagine diagnostica, di qualunque esame semplice o sofisticato, ci sono soltanto loro, i pazienti. O meglio, ce n’è uno solo: c’è un solo o una sola paziente, una persona, una alla volta. All’inizio, tutto quello che abbiamo è soltanto questa persona, il suo racconto, i suoi sintomi e segni di malattia. Da questi – e dalla nostra capacità di ascoltarli, osservarli e interpretarli – dipende tutto quello che seguirà.

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