L’impegno dell’Area Cronicità Cardiologica per una condizione non rara, ma misconosciuta
Che le droghe siano direttamente implicate nella genesi di molte patologie è un concetto ben noto da riscontri eziopatogenetici e dati epidemiologici. L’effetto tossico delle sostanze da abuso si esplica in maniera importante anche a livello dell’apparato cardiovascolare, determinando vari quadri patologici che possono coesistere tra loro: ipertensione arteriosa, aritmie, cardiomiopatie, dissezione aortica, arteriti, cardiopatia ischemica, endocarditi, ictus, fino alla morte improvvisa. Tali danni possono essere acuti o cronici; i primi sono il risultato di una azione diretta delle droghe, cui si associa quella delle sostanze con cui queste vengono tagliate o mischiate e spesso della contemporanea assunzione di alcool; si possono instaurare non solo nel consumatore cronico ma anche in quello occasionale, a volte anche indipendentemente dalla quantità di sostanza assunta. Si stima che circa un quarto degli infarti miocardici nei soggetti tra 18 e 45 anni sia secondario all’azione della cocaina. Meno nota, come la parte sommersa di un iceberg, è la possibilità di un danno d’organo cronico, subclinico (forme asintomatiche di coronaropatia o di cardiomiopatia e che predispongono ad aritmie maligne e morte improvvisa) o clinicamente manifesto; è più probabile che quest’ultimo si sviluppi nell’assuntore cronico, a maggior ragione se coesistono altri fattori di rischio cardiovascolari e/o una predisposizione genetica. Certo è che il numero dei ricoveri per patologie da sostanze d’abuso è in aumento e che verosimilmente tenderà a crescere ulteriormente, anche in considerazione del progressivo incremento della diffusione di tali sostanze, indipendentemente dall’estrazione sociale, e del fatto che gli assuntori sono prevalentemente giovani e quindi potenzialmente a rischio di essere esposti per più tempo alla loro azione. Di ciò, però, non si tiene adeguatamente conto nella pratica clinica, forse per poca sensibilità o scarsità di conoscenze, favorita dalla scarsa letteratura in merito e anche dal fatto che le nuove droghe cambiano in continuazione e sono quindi difficili da studiare. Di fatto sembra esserci una particolare riluttanza ad affrontare questo argomento, a meno che non ci si trovi di fronte a casi conclamati, al classico tossicodipendente o non ci sia la spontanea confessione da parte del paziente. Nella quotidianità l’uso delle droghe viene associato al rischio di overdose, malattie infettive o incidenti stradali, ma solo eccezionalmente a quello per patologie cardiache, anche se questo è verosimilmente più alto. Nei convegni scientifici e nelle linee guida si parla, giustamente, dei fattori di rischio classici, di quelli emergenti o di quelle condizioni che influiscono sul rischio cardiovascolare, quali i fattori ambientali o le malattie infiammatorie, ma difficilmente si accenna, neppure nel sottogruppo dei pazienti più giovani, all’importanza che hanno le droghe nel favorire lo sviluppo e la progressione di patologie cardiovascolari. Anche nelle ultime linee guida intersocietarie sulla prevenzione cardiovascolare del 2021 non vi è un paragrafo a sé stante dedicato alle droghe come fattori di rischio cardiovascolare; nella sezione riguardante l’influenza sul rischio cardiovascolare dei disturbi mentali vengono appena menzionate le sostanze psicostimolanti, il cui abuso può agire come trigger di ischemia miocardica. Il rischio relativo delle droghe, specie della cocaina, nel favorire la cardiopatia ischemica non è, eppure, inferiore a quello di altri fattori (es. artrite reumatoide e sindromi da apnee notturne) che, al contrario, sono stati ufficialmente ritenuti influenti sul rischio cardiovascolare. Anche la percentuale di soggetti esposti all’azione della cocaina (12-13% nella fascia di età tra 25 e 44 anni) è ben superiore a quella dei soggetti esposti ad altre condizioni incluse tra i fattori di rischio nelle linee guida, quali l’insufficienza ovarica primaria (1% delle donne sotto i 40 anni) o la preeclampsia (1-2% delle donne gravide). Se la classe medica non prende quindi una posizione ufficiale, può contribuire alla diffusione dell’erronea convinzione di una sostanziale non pericolosità diminuendo, soprattutto tra più giovani, la già scarsa percezione dei possibili danni associati, con il rischio di aumentare la percentuale di assuntori. È dimostrato, infatti, che lì dove c’è maggiore o corretta informazione c’è minor consumo. Di contro, considerare le droghe come un fattore di rischio cardiovascolare può rivelarsi utile in termini di prevenzione primaria e secondaria. Tale riconoscimento ufficiale può aumentare la sensibilità e l’attenzione della classe medica a sospettare, ricercare e diagnosticare un’origine voluttuaria di una data cardiopatia, requisito fondamentale per un idoneo trattamento e per instaurare dei programmi di riabilitazione anche psicologica che, col supporto fornito da centri specializzati, possano aiutare i soggetti a mettere in atto quella che è la migliore terapia riconosciuta per ogni fase della malattia, l’interruzione dell’ assunzione. Inoltre, può facilitare la programmazione di screening periodici soprattutto nei soggetti con storia di abuso abituale, per valutare dal punto di vista clinico e laboratoristico-strumentale (es. con ECG, ecocardiogramma, ormoni natriuretici, troponina) la presenza di un eventuale danno d’organo subclinico, nonché l’istituzione di ambulatori dedicati per programmi di follow-up nei pazienti dimessi con malattie cardiache associate all’uso di droghe, in virtù della peculiare gestione di tali pazienti. Ciò contribuirebbe a ridurre l’incidenza e la prevalenza delle patologie cardiovascolari da sostanze d’abuso, il rischio di progressione del danno d’organo e/o di un primo evento cardiaco acuto, il rischio di recidive, complicanze o sviluppo di malattie anche in altri organi e i costi per il sistema sanitario e per la società in genere. Ma spingendoci ancora oltre il concetto di fattore di rischio, si potrebbe ipotizzare che le patologie cardiache secondarie all’abuso di sostanze voluttuarie, peculiari per storia naturale e gestione terapeutica, possano costituire una vera e propria classe a sé stante, che potremmo racchiudere sotto il nome di Malattie cardiache da droga o Drug Abuse Heart Diseases se vogliamo usare un linguaggio internazionale. È responsabilità della classe medica e delle società scientifiche come l’ANMCO farsi carico di questa tematica. La nostra Area, in considerazione del danno a lungo termine associato alle sostanze da abuso, si è prefissa di sviluppare intorno a questo argomento una parte rilevante del suo programma biennale, al fine di diffondere sensibilità e conoscenze tra i cardiologi di queste malattie che si presentano con connotazioni particolari e che sono spesso sottovalutate o misconosciute.