Nella cultura ellenistica e della Magna Grecia, alla donna, considerata essere inferiore e degradato con una serie di carenze biologiche ed intellettuali (così diceva Aristotele), non era permesso per legge accedere alle scuole di medicina e per secoli le condizioni storiche e sociali hanno fatto sì che la medicina fosse considerata un campo prettamente maschile. Fino dall’inizio del nostro secolo, le donne di scienza sono state di volta in volta osteggiate, ignorate o screditate dagli storici. È invece giusto che il loro contributo venga ricordato e che la loro storia venga raccontata. Tra il XII e XIII secolo anche in Calabria le donne manifestarono significative forme di reazione allo stereotipo dell’inferiorità femminile costruita attraverso secoli di cultura misogina in campo scientifico. Cusina de Pastino, donna medico della Dipignano (CS) medievale, travalicò i confini entro i quali in Calabria si collocava la figura femminile. Con diploma del 22 maggio del 1404, il re Ladislao di Durazzo, considerando che “ad mulieres curanda viris sunt feminae aptiore” le diede licenza, previo esame, di esercitare la chirurgia a Cosenza. Donna Cusina aveva studiato sui trattati della rinomata scuola medica salernitana e godeva dell’unanime stima del popolo, al punto da essere definita “magistra”. Le sue capacità nell’esercitare l’arte medica ebbero una vasta risonanza in Val di Crati e in terra Giordana, tanto che alcune fonti orali tramandano la leggenda di una donna medico che praticava la dissezione dei cadaveri umani per fini scientifici nei sotterranei della sua dimora, al crocevia di Capocasale. Era in grado di arrestare le emorragie, operare ernie, trapanare, ricucire le estremità di nervi recisi, ridurre fratture e praticare l’anestesia.
Il 4 gennaio del 1899 nasceva a Mongrassano (CS) Palmira Tavolaro. Come racconta Vanda Marsico nel libro “Le donne nella storia della Calabria” (Ionia Editrice), Palmira Tavolaro si laureò nel 1922 presso la facoltà di medicina e chirurgia della Regia Università degli Studi di Roma con il massimo dei voti. Il suo lavoro di tesi sull’impiego della stricnina con ogni tipo di alcool, fu talmente apprezzato dalla comunità scientifica da meritare la pubblicazione negli Atti della Reale Accademia dei Lincei, la massima istituzione culturale dell’epoca. Nel 1927 conseguì il diploma in Chimica Pediatrica, Pediatria e Puericultura. Donna colta e coraggiosa, nata in una terra dai mille contrasti, con una forte personalità sempre orientata verso il sapere, si occupò quotidianamente degli ammalati, dei disabili, di tutti i sofferenti. Docente anche di Igiene e Microbiologia, si è sempre impegnata per migliorare il livello culturale della Calabria, combattendo ignoranza e pregiudizi.
La storia di Amalia Cecilia Bruni parte invece dalla voglia di realizzare il sogno di una vita nella terra che l’ha vista nascere. Nata a Girifalco (CZ) nel 1955, dopo la laurea fu attratta dallo studio del cervello specializzandosi in neurologia presso l’Università di Napoli. Componente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Istituto Superiore di Sanità e del Tavolo Nazionale Demenza del Ministero della Salute, moglie e madre di tre figli, è riuscita lottando, sfoderando i denti e le unghie a realizzare in Calabria una struttura di eccellenza: il “Centro Regionale di Neurogenetica” di Lametia Terme. Grazie alle sue capacità, all’amore per la ricerca scientifica e alla sua caparbietà, partendo dall’analisi di 16.000 cartelle cliniche di pazienti ricoverati presso l’ospedale psichiatrico di Girifalco (CZ) è riuscita a ricostruire un albero genealogico di 34.000 soggetti a partire dal 1600 nel mondo. Si tratta di un’unica famiglia in cui una particolare forma di malattia di Alzheimer si trasmette sempre con le stesse caratteristiche cliniche, senza saltare alcuna generazione, manifestandosi in media all’età di 40 anni. Ad Amalia Bruni dobbiamo l’individuazione della mutazione del gene (PS1) responsabile di forme ereditarie di Alzheimer. La scoperta, di enorme importanza scientifica, fu pubblicata su “Nature”. Agli inizi del nuovo millennio, la strada professionale di Amalia si è incrociata con quella del dottor David Torpy, ricercatore endocrinologo statunitense, che aveva in cura una paziente originaria di Nardodipace (Vibo Valentia). La giovane signora era affetta da una sindrome di affaticamento cronico su base genetica che spinse Torpy a chiedere collaborazione. Lo studio intenso e meticoloso di Amalia portò all’individuazione di una nuova proteina delle membrane neuronali, denominata “Nicastrina” in onore delle famiglie calabresi oggetto dello studio. Negli anni sono stati diversi gli incarichi di coordinamento di progetti di ricerca nonché le collaborazioni con illustri scienziati, come Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina nel 1986. L’attività di ricerca di Amalia Bruni è contenuta in oltre 200 pubblicazioni specialistiche che fanno di lei una delle neurologhe più affermate e autorevoli a livello mondiale. È per me un onore e fonte di ispirazione raccontare la storia di queste illustri donne medico, nate in una regione un tempo centro della Magna Grecia, a quell’epoca fra le più ricche e culturalmente avanzate, dove Alcmeone della scuola medica crotoniate gettò le prime basi scientifiche della medicina razionale.
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