Stati di sospensione

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Stati di sospensione

L’itinerario professionale di Eduardo Rebulla (Palermo, 1950) ha avuto sempre come punto di riferimento la cardiologia ospedaliera, prima pubblica e poi accreditata. Considera la scrittura “rifugio, necessità, rivelazione, eccetera (…) coltivata nel tempo rubato, più simile a un’amante che a una moglie”. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’Editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini&Castoldi (Le conseguenze estreme). Quello che ci ha proposto non è un racconto autonomo, ma un brano tratto da “Stati di sospensione”, un libro che parla di confini e di distanze, in cui tutto è pervaso dal silenzio: a volte confortante, più spesso “duro e affilato come una selce”. Leo e Chiara sono i due protagonisti: qui Chiara è la voce e Leo, ricoverato in una Rianimazione, è il corpo sospeso, trattenuto sul limite della vita: “un involucro vuoto, senza volontà e ragione”.

Che strano termine “Rianimazione”. Lascia immaginare che in strutture come questa siano esperti a far tornare al proprio posto le anime che si sono allontanate dai corpi, quando invece tutto ciò che vi si vede è inanimato, meccanico. Perfino a me che aspetto fuori, l’anima si sta sciupando. A me e a pochi altri che si ostinano a restare in attesa. Ne ho contati altri due nelle mie stesse condizioni. C’è un uomo anziano che sta seduto in macchina per tutta la giornata e scende solo per andare al citofono a domandare notizie. E c’è una donna sui cinquant’anni che viene ogni pomeriggio, si siede nel minuscolo salottino interno e cerca di fermare ogni medico che passa. Non so nulla delle loro storie, dei loro dolori. Ogni tanto ci scambiano un saluto, appena un cenno. Mai una parola, una stretta di mano, un gesto di solidarietà. Qui ogni azione diventa rarefatta, sfocata – senza anima. Se mi domandassero di descrivere la faccia di questi miei discretissimi compagni di sventura, ma anche la faccia dei medici con cui ho parlato o degli infermieri che ruotano coprendo i vari turni, non ne sarei capace. Non sono volti ma visi, lineamenti senza espressione. E tuttavia non so cos’altro potrei fare, Leo, se non stare qui e fare fede al mio nome, resistendo all’ombra che avanza, scegliendo la visibilità. Sarebbe più semplice dimorare dentro di me, alzare un muro e stare ad aspettare, rintanata e inerte. Per la prima volta ho capito che ci sono dolori che senti dappertutto, che non sono uno stato di fondo ma qualcosa che circola col sangue e che impregna ogni fibra. È così da una settimana e non ho avuto un attimo di requie. Mi fa male ogni articolazione, ogni muscolo, ogni movimento, ogni pensiero, ogni soffio che esce o entra, ogni suono che ascolto. Mi fa male vivere, ma non so fare altrimenti e quindi vivo. E tengo alto il mio nome, come una bandiera: sono qua, sono io, sono Chiara. Sono ai piedi del tuo letto, spio il tuo corpo che è solo un corpo e mi domando come sia possibile, per quale sortilegio, per quale diabolica casualità, che debba essere proprio io a subire questa prova: sapere che tu sei qui davanti a me e che ci sei senza esserci, che quello che io vedo e tocco è fatto solo di carne e di apparenze, un involucro vuoto, senza volontà e ragione. Ci sei Leo? Ci sei ancora, in qualche modo, in qualche forma, magari prigioniero o spettatore, presente eppure incapace di parole o gesti, ci sei? Me lo domando con angoscia ogni volta che vedo affiorare sul tuo volto una vaga espressione di dolore o che colgo il movimento incerto della mano che si avvicina alla cannula del respiratore. Il medico mi ha assicurato che si tratta di riflessi elementari, di cortocircuiti senza senso, ma io non so se credergli. Si chiama Marco e ogni volta che può viene a darmi notizie e poi mi lascia entrare. Indosso il camice verde, la mascherina, i calzari e avanzo in questo ambiente dove tutto è inanimato, perfino le mosse delle infermiere che ogni tanto arrivano in prossimità di un corpo, iniettano un farmaco, cambiano una flebo, rimuovono un sacchetto, modificano la posizione di un arto, tutto meccanicamente, al limite

dell’indifferenza. Qui non ci sono malati, ma corpi, corpi senza sentimento, trattenuti in una zona di confine, oltre la vita. Corpi come isole. Nastro isolante e interruzione del contatto: è un’immagine che hai usato l’ultima volta che siamo andati insieme a Favignana e mi hai parlato del desiderio di trasferirti a vivere su un’isola e di abbandonare la pittura, le mostre, le frequentazioni. Era un presentimento? Non lo so ma è certo che a guardarti qui, costretto a una vita artificiale, fra tubi, cateteri, sonde, rilevatori delle funzioni vitali e altri complicati marchingegni, ho la sensazione di una lunga gestazione, di una preparazione minuziosa, di un esito. Capisci cosa voglio dire, non è vero? È questa la tua ultima opera, l’espressione estrema dei tuoi “Stati di sospensione”? Ne ho parlato a Marco e mi ha ascoltato solo per compiacermi. «È un’ipotesi suggestiva ma nulla più», mi ha risposto alla fine, con una formula che lascia intendere la sua impermeabilità, la sua incapacità di allontanarsi dai fatti, di cambiare occhiali, di rovesciare la realtà. È una di quelle persone “razionali” che confondono la ragione con l’ordine, quando invece la ragione, quella vera, quella che interroga e si interroga, non può fare a meno di cambiarlo l’ordine, di rivoltarlo, di ipotizzarne un altro. Perché sarà pure come asserisce lui, sarà che il tuo cervello è ormai irrimediabilmente spento, e tuttavia di fronte all’evidenza di quelle poche onde lente, interrotte di tanto in tanto da improvvise salve, non mi rassegno e non riesco a rimanere ferma, ad accettare l’inappellabilità delle cose. Ho bisogno di andare oltre, attorno, prima e… dopo, anche dopo, per capire se c’è dell’altro, se c’è un senso, un significato nascosto. Nascosto. Anche il più stupido degli aggettivi contiene la sua parte di allusività e di metafisica. Me l’hanno insegnato o me lo sono inventato, non lo so più, ma per il momento l’unico appiglio che possiedo è proprio questo: credere, immaginare, che qualcosa mi sfugga, qualcosa di implicito e di morboso. Sì, anche di morboso, perché tutto qui mi sembra esagerato, ossessivo, come un sogno. Ecco, lo vedi Leo, procedo in mettere, faccio riferimento all’acqua e temo il fuoco. Scavo per tirare fuori e non per sotterrare. Avevi ragione tu, avrei dovuto fare l’archeologa o l’analista. «Oppure, nella peggiore delle ipotesi, il critico», aggiungevi sorridendo. Sorridevi sempre per addolcire qualche crudeltà. Per questo ogni volta che parlavamo stavo in guardia e spiavo il tuo viso e temevo che da un momento all’altro, inaspettatamente, spuntasse quel sorriso che sembra aperto, cordiale e che invece è una maschera, un rifugio. È il tuo modo di togliere peso, di ferire senza spargere sangue, con la stessa indolente sollecitudine con cui qui vieni accudito: tu o quel che resiste di te, in quest’ultimo stato di sospensione. Mi spiace, ma non riesco a fermarmi e devo subire questa foga che non si placa. Mi spiace, ma per me è diverso, per me a questo punto è indispensabile affidarmi alle parole. Non amavi che si sprecassero, lo so, ma non mi rimane altro. Per combattere il vuoto. Per mantenermi in equilibrio. Per trattenerti e trattenermi ancora un po’. «Devi fartene una ragione», mi dicono tutti quelli che mi vengono a trovare per cercare di consolarmi. Ma che vuol dire “farsene una ragione”? Accettare la realtà, piegarsi all’inesorabilità delle cose, è questo che vuol dire? E va bene, io subisco e mi piego ma non so farmene una ragione, non ci riesco. Ho una rabbia sorda verso tutto e tutti, Leo, a tratti anche verso di te. Non hai idea di che cosa siano le attese qui fuori. Sto seduta da sola su una panchina, davanti a uno spiazzo zeppo di macchine, senza un solo pensiero a cui attaccarsi per deviare un po’, sempre attenta all’eventualità che arrivi Marco e mi faccia il gesto di raggiungerlo per potere entrare dentro e approdare al tuo letto. E ci arrivo così carica di ansia che a ritrovarti nelle stesse condizioni in cui ti ho lasciato, mi viene voglia di afferrarti e scuoterti. Ci sei, Leo? mi senti? sono io, sono Chiara, sono qui e sono disperata. A tratti penso che sia questa la pena che hai scelto per me e ti vedo come un dio crudele, insensibile. È vero, non ci avevo pensato prima, ma adesso improvvisamente mi balza agli occhi. Mi guardo attorno e mi accorgo che è così: ogni letto ripropone la stessa immagine orribile e misteriosa, ogni corpo è una forma oscura e minacciosa della stessa divinità. Sarà per questo che medici e infermieri compiono ogni gesto in modo essenziale, secondo ritmi preordinati, quasi fosse un cerimoniale? Li osservo e mi manca l’aria, Leo, mi manca la vita e la normalità. Ma sono prigioniera del tuo corpo e non so trovare la ragione per cambiare. Mi metto la tua mano sulla bocca e resto ferma a fissare il vuoto. C’è solo il soffio ritmico del respiratore, e tutt’intorno il tuo sonno e questo silenzio, duro e affilato, come una selce.

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