Un polpo da liberare

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Un polpo da liberare

TOMMASO LEOTTA
“Da ventisei anni innamorato della musica, del cinema e della letteratura. Ho preso un master in narrazione alla Scuola Holden e sono diplomato in un’Accademia di sceneggiatura. Nel tempo libero, suono.

Ogni sera, dopo aver cenato con sua moglie, il dottor Calvi si chiudeva per una quindicina di minuti nel suo studio, assaporando quel silenzio che nel reparto cardiologia, dove lavorava, era merce assai rara. Lì, invece, nella quiete della sua stanza, non c’era traccia di tintinnii o di carrelli che passavano lungo i corridoi dell’ospedale. Solo lui e, davanti a sé, la macchina da scrivere. In quei quindici minuti che si concedeva ogni sera nel silenzio benedetto del suo studio, il dottor Calvi scriveva. Tutte le sere, una pagina. Mai una riga di più. Del resto, una pagina era il massimo che il signor Ponelli fosse in grado di leggere, data la sua malattia al cuore. Il dottor Calvi, sebbene esausto dalla giornata, non rinunciava mai a quella pagina. Va detto che non era certo avvezzo a questo tipo di stravaganze, ma l’incontro con quel paziente gli aveva acceso un’insolita vena di coraggio tale da fargli compiere con devozione quello che era diventato, a tutti gli effetti, una specie di rito. Meglio spiegare a questo punto chi fosse il signor Ponelli.
Aveva sessant’anni. Pochi, ma ordinati capelli in testa e due occhi grigi che teneva sempre socchiusi. Parlava poco e il più del tempo lo passava a guardarsi le mani. Faceva il pescatore.
“Le piace il Giappone?”, gli aveva chiesto il dottor Calvi la prima volta che era entrato nella sua stanza d’ospedale.
“Non saprei. Volete farmi operare lì?”
Non peccava certo di umorismo, il signor Ponelli.
“Vedremo. Quando ha iniziato a pescare?”
“Da sempre. Da piccolo osservavo mio padre. Mentre pescava lungo il fiume, mi raccontava storie. Storie di me da bambino. Storie di chi sarei diventato da grande. Andava avanti a raccontare fino a sera. Non ho mai pescato un singolo giorno senza mio padre. Mai una volta senza che lui mi raccontasse qualcosa”
“Invece polpi ne ha mai pescati?”
“Per l’amor di Dio. Non è per nulla rilassante. A me piacciono le cose semplici”
Aveva spostato lo sguardo dalle mani al cartellino sul camice del dottore.
“Dottor Calvi, le spiace se parliamo un attimo della mia malattia”
“Lo stiamo già facendo, signor Ponelli”.
Infatti, aveva la sindrome di takotsubo, una parola giapponese che significava “trappola per polpi”. Si chiama così perché la parte inferiore del cuore assume una forma simile al vaso di terracotta usato in Giappone per la pesca dei polpi. Il sangue si va a concentrare nel ventricolo sinistro che si stringe in alto gonfiandosi in basso, e quindi impedendo la normale attività cardiaca. Una sindrome molto rara.
È anche chiamata sindrome del cuore infranto, perché si ipotizza che la causa scatenante sia un forte stress emotivo o un evento traumatico. “Posso chiederle se stia passando un brutto periodo?”
Il signor Ponelli aveva guardato fuori dalla finestra. Il sole era tramontato lasciando il cielo in una moltitudine di colori indefiniti facendo riemergere nel cuore del paziente tutti i momenti che non possono più tornare.
“Diciamo che non potrò più pescare come prima”, disse. E poi piano, “diciamo che non avrà più senso pescare, ora”
Il dottor Calvi se ne era rimasto in silenzio a guardarlo.
“In questi casi è molto importante che lei trovi un hobby che la rilassi. Il cuore deve riposare. Pensi a qualcosa che la possa distrarre. Intanto noi cercheremo di liberare il polpo”
Un’ attimo prima di uscire dalla stanza, il signor Ponelli chiamò il dottore.
“Lei cosa fa per rilassarsi? Come hobby intendo”
“Beh… scrivo. O meglio, scrivevo. Perlopiù racconti. Da ragazzo mi rilassava. In effetti è da molto tempo che non mi rilasso più”
La settimana seguente, quando il dottor Calvi era ritornato a visitarlo, il signor Ponelli gli disse che aveva trovato qualcosa che l’avrebbe potuto rilassare.
Una storia.
“E quali storie vorrebbe leggere?”, aveva chiesto il dottore.
Questa volta non aveva spostato lo sguardo dalle mani.
“La mia”, disse. E poi aggiunse, quasi in un sussurro, “vorrei che me la scrivesse lei”
E così, ogni sera, il dottor Calvi scriveva una pagina della storia del signor Ponelli. Va detto che la cosa risultò piuttosto difficile, giacché il paziente non raccontava nulla di sé, né c’erano visitatori che potevano dare alcun tipo di informazione sul suo passato. La prima sera, il dottor Calvi scrisse qualcosa dell’infanzia del suo paziente. Fu come buttarsi in mare dopo una vita passata nell’entroterra. Riscoprì l’ebrezza nel cercare la parola esatta, la cura delle frasi, la musicalità di certe ipotassi. Scrivendo della prima volta che il signor Ponelli andò a pescare con suo padre, fu trascinato indietro a quando, molti anni prima, il dottor Calvi scriveva i suoi primi racconti. Racconti d’amore che dedicava alla donna che sarebbe poi diventata sua moglie. Era un’eccitazione nuova. In genere tornava dal lavoro portandosi appresso le malattie e le sindromi da curare. Quel caso era diverso. Si portava a casa una storia da scrivere.
Quando arrivò a fine pagina, era esausto.
Consegnava la pagina al mattino, quando il signor Ponelli ancora dormiva. Poi lo andava a trovare di primo pomeriggio e tutti e due evitavano di commentare ciò che aveva scritto. Parlavano della patologia e del percorso terapeutico da seguire.
La sindrome di tako-tsubo non è una malattia grave, ma succede a volte che le cose si complichino. Quello era uno di quei casi. Quando finivano di parlare, il dottor Calvi guardava le mani e i solchi sotto gli occhi del signor Ponelli. Da una parte valutava la salute, dall’altra cercava indizi per le sue pagine. Quando aveva accettato quella sfida, gli era sembrata una passeggiata scrivere da zero su una persona che non conosceva. Andando avanti con il tempo, le idee iniziarono a scarseggiare. Cercava nelle mani del paziente tracce della sua giovinezza, amori vissuti o amicizie consolidate. Più passavano le sere e più arrivare a fine pagina diventava una lotta. Non guardava mai il signor Ponelli leggere i propri fogli. Per una specie di rispetto o forse per vergogna. Dopo trentacinque giorni e altrettante pagine scritte, il signor Ponelli prese la mano del dottore e disse, Dobbiamo parlare. Mise la mano del dottore mise sul proprio petto. Parlò con un filo di voce.
“Lo sente, dottore?”
Il dottore lo guardò senza dire nulla. “È stanco. Stanchissimo. E non può permettersi di usare energie se non per motivi assolutamente importanti.
E la storia che sta scrivendo è assolutamente importante. Lo scriva come se non lo fosse solo per me, ma anche per lei. Mi ha capito?”
Quel giorno, il dottore uscì prima dal lavoro, non mangiò insieme a 40 | Cardiologia negli Ospedali | duecentocinquantanove – duecentosessanta DALLE AREE – MANAGEMENT& QUALITÀ sua moglie chiudendosi invece tutta la sera nel proprio studio. Meditò a lungo sulle pagine che aveva scritto. Poi pensò che lui in fondo era un dottore e non spettava a lui fare certe cose. C’erano gli scrittori per quello. Decise che quella storia non poteva più andare avanti.
La mattina seguente tornò con il foglio per il signor Ponelli. Non aveva smesso di scrivere, ma non inventava più di sana pianta eventi immaginari. Intrometteva, nelle vicende del signor Ponelli, anche tratti autobiografici, tanto che, rileggendo le pagine, non distingueva la sua storia da quella del suo paziente. D’un tratto, non fu più faticoso arrivare a fine pagina. Anzi, era un lungo lavoro di cura e attenzione cercare di riportare solo i fatti essenziali, i momenti più intensi. Non saltava più di parecchi anni tra una pagina e l’altra come aveva fatto precedentemente. La storia avanzava lenta come un’onda sulla riva di una spiaggia in una giornata senza vento. Un giorno, mentre gli appoggiava la mano sul cuore durante un controllo medico, gli disse che per capire cosa scrivere, ascoltava i battiti del suo cuore. Se era agitato, voleva dire che il periodo di vita era difficile. Se era calmo, avrebbe descritto giorni belli e spensierati. Lo disse a voce bassa mentre il signor Ponelli teneva gli occhi chiusi, assonnato o, forse, in ascolto.
Poi la salute del paziente peggiorò. “Mi dica. Neanche in Giappone riuscirebbero a liberarlo vero?”, disse il signor Ponelli senza riuscire più a tenere gli occhi aperti. Il signor Calvi provò a rispondere, ma fu interrotto. “Finisca la mia storia. Venga qui e me la legga. Non riesco più a farlo da solo” Passarono novantasette fogli da quando aveva ricominciato a scrivere. Gli ultimi li lesse ad alta voce. Aveva percorso tutta la sua vita, fino ad arrivare all’ultima volta che lui e suo padre avevano pescato assieme. Mentre leggeva del momento esatto in cui lui gli aveva detto addio, vide il Signor Ponelli fare un gesto vago con la mano. Avanti e indietro. Non poteva esserne sicuro, ma il dottore era comunque convinto che stesse tenendo in mano una canna da pesca. La canna da pesca di suo padre. I giorni seguenti, il dottor Calvi continuò a scrivere i fogli non più sul passato, ma sul futuro del signor Ponelli.
Arrivò a scrivere anche del loro incontro. Di loro due che uscivano a prendere un caffè. Di quella storia pubblicata in qualche piccola casa editrice. Dell’inizio, atipico, di quell’amicizia.
Scrisse tutto questo, finché una mattina il dottor Calvi entrò nella stanza del signor Ponelli trovando solo il letto dove dormiva, vuoto. “Infarto cardiaco nel sonno” gli disse un’infermiera “Quando ce ne siamo accorti era troppo tardi”
Il dottore appoggiò comunque sul comodino il foglio che aveva scritto. Rimase fermo qualche secondo ascoltando il silenzio che si formava in ospedale quando un paziente moriva. Un silenzio simile a quello del suo studio. Solo un po’ più intenso.
“Questa è per lei”, l’infermiera porse una busta con su scritto per il signor Calvi. L’avevano trovata nello scaffale di fianco al letto.
Quella sera, dopo aver cenato in silenzio con sua moglie, il dottor Calvi si chiuse per una quindicina di minuti nel suo studio, rigirando tra le mani la busta ancora sigillata. Prima di aprirla, mise a posto la macchina da scrivere e solo allora pensò che non aveva fatto una copia di tutte le pagine che aveva scritto e che non avrebbe più potuto leggerle. Non pianse, perché era un lusso che non si era mai concesso, nemmeno da ragazzo, ma non gli piaceva più quel silenzio. Aprì la porta. Dalla cucina sentiva sua moglie canticchiare una canzone mentre lavava i piatti. Si rimise a sedere. Per vari minuti non fece altro che guardarsi le mani.
Solo quando aprì lentamente la busta e vide il disegno che gli aveva fatto il signor Ponelli, un piccolo sorriso si fece largo tra le sue labbra. Quella notte, sotto le coperte, il dottore chiese a sua moglie se le andava di raccontare come si erano conosciuti quando erano giovani.
“Ma te lo devo raccontare ora?”
“Se non è un problema”
“Sono le tre di notte”
“Puoi farlo in breve”
“Ma perché vuoi sentirlo adesso?”
“Così”
“Non è per via di quel disegno? Quello del polpo che nuota nel fiume?”
“Come fai a sapere del…”
“L’ho visto prima entrando nel tuo studio. Allora, è per quello o no?”
“Forse, non so… Poi ti spiego, promesso. Ora però racconta di noi due”
E la moglie raccontò di loro due, e mentre lo faceva, la mano di lei accarezzava il petto di lui così da sentire, sotto la pelle di suo marito, il cuore battere dolcemente e senza intoppi, seguendo il ritmo lento e preciso delle proprie parole.

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