REVIVED BCIS2 Angioplastica nella disfunzione ventricolare sinistra ischemica

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REVIVED BCIS2 Angioplastica nella disfunzione ventricolare sinistra ischemica

Trial randomizzato di confronto tra terapia medica ottimale e rivascolarizzazione percutanea in aggiunta alla terapia medica ottimale, nel paziente con disfunzione ventricolare sinistra ischemica

La rivascolarizzazione percutanea non migliora la sopravvivenza nel paziente con disfunzione ventricolare sinistra e coronaropatia severa

A Ottobre scorso è comparso su New England Journal of Medicine un trial dall’acronimo difficilmente memorizzabile: REVIVED-BCIS2. Nome complicato, quesito semplice: l’angioplastica conferisce un vantaggio di sopravvivenza, rispetto alla terapia medica ottimale (Optimal Medical Therapy, OMT), nel paziente con severa depressione della FE e malattia coronarica severa? Dopo aver letto il lavoro, la questione è ulteriormente semplificabile: l’angioplastica serve a qualcosa nel suddetto contesto clinico? Spesso, per vari motivi, sottoponiamo a PCI i nostri pazienti con cardiomiopatia ischemica. D’altra parte, un punto fermo delle conoscenze sull’argomento è rappresentato dal fatto che è il bypass coronarico a ridurre la mortalità cardiovascolare nel medio termine (STICH trial) e la mortalità da ogni causa nel lungo termine (STICH Extension Study, 10 anni di follow up). REVIVED ha randomizzato 700 pazienti a 2 bracci di trattamento: 1) OMT vs. 2) OMT + angioplastica. Ipotesi degli Autori: la rivascolarizzazione percutanea, in aggiunta alla OMT, riduce la mortalità da ogni causa e le ospedalizzazioni per scompenso rispetto alla sola OMT. Follow up: poco meno di 4 anni. Criteri propedeutici all’arruolamento: FE ≤ 35%, malattia coronarica “severa”, dimostrazione di vitalità miocardica. Importante: i pazienti randomizzati avevano vitalità nei territori miocardici sottesi dai vasi trattati con PCI. Nello STICH (che testava OMT vs. OMT + bypass coronarico) la presenza di vitalità non solo non rientrava tra i criteri di inclusione, ma la presenza di miocardio vitale non aveva modificato l’outcome: i pazienti rivascolarizzati chirurgicamente andavano incontro a riduzione della mortalità indipendentemente dalla presenza di vitalità miocardica. Esclusi dall’arruolamento i pazienti instabili, definiti da: recente infarto miocardico (entro 4 settimane), insufficienza cardiaca acuta, aritmie ventricolari sostenute.

A ulteriore conferma della rigorosità adottata dagli Autori del REVIVED è la definizione di “severità” della coronaropatia: non giudizi soggettivi, bensì calcolo di uno score (British Myocardial Jeopardy Score ≥ 6 = malattia “severa”). Ebbene, i pazienti assegnati al braccio PCI non sono andati incontro né a riduzione della mortalità da tutte le cause, né a ridotta frequenza di ospedalizzazione per scompenso (Figura 1), né a miglioramento della funzione ventricolare sinistra rispetto ai pazienti trattati con sola OMT. REVIVED si accoda così ai lavori che hanno dimostrato lo scarso o nullo impatto dell’angioplastica sugli hard endpoints nel paziente con malattia coronarica stabile. La terapia farmacologica massimale, associata a un corretto stile di vita, è sufficiente da sola (senza l’aggiunta dell’angioplastica) a migliorare l’outcome nel paziente stabile. Alcuni dati meritano di essere riportati: – il tasso di infarto miocardico nel follow-up è alto (> 30 %) e sovrapponibile nei due gruppi, ovvero: l’angioplastica non previene le sindromi coronariche acute in misura maggiore rispetto alla sola terapia medica; – a 12 mesi di follow – up, il miglioramento della FE è trascurabile e sovrapponibile in entrambi i gruppi: viene così messo in discussione il concetto di miocardio “ibernato”, cioè di miocardio vitale che recupera contrattilità dopo rivascolarizzazione; – i pazienti assegnati ad angioplastica vanno incontro a un miglioramento significativo della qualità della vita, espressa mediante il Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire; temo però che il dato sia questionabile, dato che il disegno dello studio è per sua natura aperto (è probabile cioè che i pazienti sottoposti a PCI percepiscano meno sintomi in seguito alla “riapertura delle coronarie ostruite”); – circa il 14% dei pazienti in entrambi i gruppi era affetto anche da malattia del tronco comune: frazione piccola, ma non trascurabile, che alimenta gli interrogativi sulla utilità della PCI nel paziente con disfunzione sistolica severa senza sindrome coronarica acuta. Ma quale ipotesi possiamo avanzare per tentare di spiegare l’effetto nullo della PCI (in aggiunta alla OMT) nei pazienti del REVIVED? Nello STICH, la mortalità cardiovascolare dei pazienti rivascolarizzati chirurgicamente si riduceva rispetto a quelli trattati con sola OMT. Perché invece nel REVIVED la PCI non ha ridotto l’endpoint primario? Sempre di rivascolarizzazione si tratta. Una possibile spiegazione potrebbe consistere nel fatto che il gruppo di controllo nello STICH e nel REVIVED è lo stesso (terapia medica ottimale) ma al contempo non è lo stesso: in 20 anni la terapia farmacologica dello scompenso ha subito un miglioramento drastico, tale da vanificare (ripeto, sono solo ipotesi) l’effetto aggiuntivo della PCI nel REVIVED. Sarebbe interessante ripetere oggi lo STICH, adottando la moderna terapia farmacologica dello scompenso come braccio di controllo. REVIVED BCIS-2 ha alcuni punti deboli: il campione non è molto ampio (700 pazienti, la metà del campione dello STICH) e il follow – up è, ad oggi, relativamente breve (circa 4 anni, mentre nello STICH Extension ci sono voluti 10 anni per la dimostrazione della ridotta mortalità totale nel braccio bypass). Ad ogni modo, il trial è entusiasmante e probabilmente aprirà la strada ad ulteriori lavori sullo stesso argomento. Buona lettura.

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