Nuove evidenze sull’utilizzo degli SGLT2i nei pazienti con scompenso cardiaco in fase acuta

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Nuove evidenze sull’utilizzo degli SGLT2i nei pazienti con scompenso cardiaco in fase acuta

Gli SGLT2i hanno un buon profilo di sicurezza e di tollerabilità; è ipotizzabile un loro impiego già durante il ricovero?

Lo studio EMP

L’aggiornamento 2021 delle linee guida ESC sullo scompenso cardiaco ha visto come novità più significative l’introduzione degli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) nella terapia dello scompenso cardiaco a funzione sistolica ridotta e il superamento del precedente algoritmo sulla terapia, caratterizzato da step sequenziali e legato all’ordine storico di introduzione dei farmaci “disease modifier”. Ciò ha introdotto una serie di riflessioni su quale sia l’ordine più rapido ed efficace di implementazione di queste terapie, alla luce delle evidenze che dimostrano – anche per gli SGLT2i- un beneficio precoce, già dalle prime fasi della somministrazione, oltre che un buon profilo di sicurezza e tollerabilità. In tal senso, l’approccio è passato dall’introdurre in modo sequenziale le varie classi di farmaci, titolando le dosi fino al target previsto prima del passaggio successivo, all’iniziare la terapia con tutte e quattro le classi di farmaci a disposizione, beta bloccanti, inibitori del sistema reninaangiotensina (RASi) o inibitori del recettore dell’angiotensina e della neprilisina (ARNI), antialdosteronici (MRA) e SGLT2i, con l’obiettivo di implementarli tempestivamente, e possibilmente entro le 4-6 settimane, tempo in cui per tutti i farmaci si rende evidente il beneficio clinico. Pertanto, poter iniziare la terapia già nella fase acuta del ricovero, o nell’immediato post dimissione, è un punto cruciale per ottimizzare e velocizzare ulteriormente questo processo, sebbene spesso i parametri clinici (congestione, pressione arteriosa, frequenza cardiaca) limitino l’uso aggressivo di farmaci con effetti emodinamici significativi. Se per ARNI l’uso in fase acuta/postacuta precoce è stato studiato nei trial PIONEER-HF e TRANSITION, per gli SGLT2i le evidenze sinora derivavano da un singolo studio, il SOLOIST-WHF, che ha utilizzato sotagliflozin, inibitore non selettivo dei trasportatori sodio-glucosio tipo 1 e 2, ed ha arruolato esclusivamente pazienti diabetici, senza distinzione in base alla frazione d’eiezione (FE). Il trial, che ha interessato anche pazienti nell’immediato post dimissione, è stato terminato precocemente per carenza di fondi, dimostrando tuttavia, nel breve follow-up medio di 9 mesi, di ridurre significativamente l’end-point primario di morte cardiovascolare e ricovero o visita urgente per scompenso cardiaco. Per le caratteristiche dello studio e per la popolazione di solo diabetici arruolata è difficile – sulla base dei risultati – trarre delle conclusioni definitive.

Lo studio EMPULSE
Recentemente sono stati pubblicati i risultati dello studio EMPULSE (EMPagliflozin 10 mg Compared to Placebo, Initiated in Patients Hospitalised for acUte Heart faiLure Who Have Been StabilisEd), già anticipati al congresso dell’American Heart Association 2021. Il trial EMPULSE, uno studio di superiorità, multicentrico, randomizzato e in doppio cieco, ha arruolato pazienti con scompenso cardiaco acuto (sia “de novo” che “riacutizzazioni”) in fase precoce, entro 5 giorni dall’ospedalizzazione, raggiunta una certa stabilità del quadro emodinamico (non dipendenza da inotropi, non recente incremento della terapia diuretica o con nitrati). Erano arruolati pazienti senza distinzione di FE, indipendentemente dalla diagnosi di diabete mellito. Sono stati randomizzati 530 pazienti a empagliflozin o placebo, con un follow-up di 90 giorni. L’endpoint composito primario era il “beneficio clinico a 90 giorni”, costituito da: tempo alla morte per tutte le cause, frequenza degli eventi correlati allo scompenso (HFE), tempo al primo evento di HF e variazione del punteggio al questionario Kansas City Cardiomyopathy (KCCQ) rispetto al basale. Questo è stato espresso come un “rapporto di vittoria” (win ratio), stratificato gerarchicamente per i vari componenti, prevedendo un pareggio o una chiara vittoria in base al rapporto tra numero di vittorie e sconfitte. Sono stati valutati tra gli outcome secondari il tempo alla morte per cause cardiovascolari o alla ospedalizzazione per HF, le variazioni del punteggio KCCQ, le variazioni nelle concentrazioni sieriche di NTpro BNP, l’outcome renale inteso come incidenza del ricorso alla dialisi, peggioramento significativo del GFR o la necessità di trapianto renale. I pazienti arruolati erano prevalentemente maschi (66%), con un’età media di 71 anni, nel 68,7% dei casi con FE <40%. Circa il 10% aveva un eGFR < 30 ml/min e poco meno della metà era affetto da diabete. Al follow-up i pazienti del braccio trattamento hanno avuto il 36% in più di probabilità di «sperimentare un beneficio clinico» rispetto ai pazienti del braccio placebo, per quanto riguarda l’endpoint primario. Tale risultato si è osservato sia nei pazienti con “riacutizzazione di scompenso cardiaco” che con “scompenso cardiaco de novo” (che costituivano quasi un terzo della popolazione arruolata), indipendentemente dalla frazione d’eiezione, dal sesso, dall’età, dai valori basali dei peptidi natriuretici, dalla funzione renale e dalla presenza o meno di diabete. I pazienti trattati con empagliflozin avevano un miglior punteggio al questionario sulla qualità della vita, una più grande riduzione dei valori di NT pro-BNP, una mortalità più bassa (4,2% vs 8,3%) e un minor numero di eventi correlati allo scompenso cardiaco (10,6% vs 14,7%). Inoltre si è osservato un numero di eventi avversi gravi inferiore nei pazienti trattati con empaglifozin. Significativamente, in tutto il trial non si è registrato nessun episodio di chetoacidosi, e i pazienti nel braccio trattamento sperimentavano una minor incidenza di eventi renali avversi e di insufficienza renale acuta (7,7% vs 12,1%).

Conclusioni
Complessivamente si può concludere che i pazienti con scompenso cardiaco acuto trattati con empaglifozin beneficino di un miglioramento della sintomatologia e della qualità della vita, di una riduzione dei ricoveri per scompenso cardiaco e di decesso, già nella fase vulnerabile dell’immediato post dimissione, gravata da un’elevata mortalità e da un alto rischio di riospedalizzazione. La sostanziale sicurezza del farmaco e la sua buona tollerabilità ne permettono l’implementazione anche nella fase acuta, spesso caratterizzata da un uso intensivo di farmaci che impattano in modo significativo su un profilo emodinamico per definizione instabile. Inoltre, ai benefici suddetti si aggiunge la possibilità di ampliare ulteriormente la popolazione target, avendo il farmaco dimostrato non solo gli stessi risultati in un ampio spettro fenotipico indipendente dalla frazione d’eiezione al reclutamento, ma anche nei pazienti con scompenso cardiaco “de novo”. La successiva pubblicazione degli altri studi in corso, come il DICTATEAHF con dapagliflozin, porterà a consolidare ulteriormente questi risultati o comunque a fornire ulteriori evidenze sull’introduzione precoce di questa classe di farmaci nella terapia dei pazienti con scompenso cardiaco.

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