Cardiopatico in montagna: come comportarsi
Come i pazienti cardiopatici possono affrontare la montagna
Località ad alta quota sono definite come località superiori a 2.500 m sul livello del mare, l’altitudine al di sopra della quale iniziano a svilupparsi molte delle risposte fisiologiche che rappresentano vere e proprie sfide per il corpo umano. L’ossigeno è vitale per il metabolismo cellulare; pertanto, le condizioni di ipossia riscontrate ad alta quota influenzano tutte le funzioni fisiologiche. La risposta alla esposizione improvvisa all’ipossia è una vasodilatazione sistemica endotelio – dipendente e endotelio -indipendente, che può inizialmente determinare un certo grado di riduzione della pressione sanguigna (PA). Dopo alcune ore, tuttavia, questo meccanismo è controbilanciato da un aumento generalizzato, dipendente dall’altitudine, nella vasocostrizione mediata dal simpatico, di conseguenza si verifica, un aumento significativo e persistente della PA arteriosa, proporzionale all’altitudine raggiunta e più evidente di notte. L’ipossia acuta attiva il sistema adrenergico e induce tachicardia, mentre la vasocostrizione polmonare ipossica aumenta la pressione dell’arteria polmonare. Dopo alcuni giorni di esposizione a basse concentrazioni di ossigeno, il sistema nervoso autonomo si adatta e la tachicardia diminuisce, proteggendo così il miocardio da un elevato consumo di energia. L’esposizione permanente ad alta quota induce l’eritropoiesi, che se eccessiva può essere deleteria e portare al mal di montagna cronico, spesso associato a ipertensione polmonare e insufficienza cardiaca. I fattori genetici potrebbero spiegare la prevalenza variabile del mal di montagna cronico, a seconda della popolazione e della regione geografica. Gli adattamenti cardiovascolari all’ipossia forniscono un modello notevole della regolazione della disponibilità di ossigeno a livello cellulare e sistemico. La rapida esposizione ad alta quota può avere effetti avversi nei pazienti con malattie cardiovascolari. Tuttavia, l’ipossia intermittente e moderata potrebbe essere utile nella gestione di alcuni disturbi cardiovascolari, come la malattia coronarica e l’insufficienza cardiaca. Frequentare la montagna per soggiorno o attività sportiva è una componente importante della qualità di vita per molte persone. La quota altimetrica viene stratificata in alta (1.500 – 3.500 m), molto alta (3.500 – 5.500 m) ed estrema (> 5.500 m) ma è una delle definizioni possibili. La composizione relativa dell’aria non cambia salendo di quota rispetto al livello del mare (70.08% di azoto, 20.9%di ossigeno, 1% di vapore acqueo, 0.04% di anidride carbonica e quote minori di altri gas), ma la sua densità si riduce e così il contenuto assoluto dei gas incluso l’ossigeno (ipossia ipobarica). Non esistono molti studi sul comportamento del paziente coronaropatico in montagna. Alcuni studi sono stati eseguiti in pazienti con pregresso infarto miocardico o sottoposti a rivascolarizzazione miocardica percutaneo e/o chirurgica, che non presentavano sintomi e segni di ischemia a riposo e durante un test da sforzo. In questi studi non si sono osservati sintomi e segni di ischemia a riposo e durante sforzo anche alle quote di 2.000 – 2.500 m. Questi dati sono stati confermati anche in pazienti con ridotta frazione di eiezione del ventricolo sinistro (FE 45%), coronaropatici, purché asintomatici e senza segni di ischemia a riposo e sotto sforzo fisico anche a bassa quota. Per cui in pazienti coronaropatici ma stabilizzati l’esposizione ad alta quota non sembra controindicata. Studi eseguiti su pazienti coronaropatici ma con segni e/o sintomi di ischemia da sforzo fisico eseguito a bassa quota, in seguito ad esposizione a quote medio-alte presentavano aumento della frequenza cardiaca e della pressione sistolica arteriosa e riduzione del VO2 max. Tuttavia, dopo pochi giorni presentavano valori di VO2 max paragonabili a quelli presentati a livello del mare come pure la soglia sistemica e miocardica di ischemia. Per cui i pazienti coronaropatici devono limitare l’attività fisica nei primi giorni dell’arrivo in quota e la prescrizione dell’attività fisica deve basarsi sulla frequenza cardiaca e non sul carico di lavoro. Sulla base di quanto riportato da diversi autori i pazienti coronaropatici che a livello del mare non presentano sintomi, dimostrano una buona capacità lavorativa con normale pressione arteriosa e frequenza cardiaca durante test da sforzo, possono soggiornare in montagna, praticare escursionismo, fino anche a 3.000 m. Di frequente un atteggiamento restrittivo porta i medici a sconsigliare ai cardiopatici il soggiorno a quote >1.000 m. Tuttavia questo atteggiamento non è sostenuto da una dimostrazione scientifica. Considerati gli adattamenti cardiocircolatori nel corso di una esposizione ad un ambiente montano ad alta quota si può affermare che i coronaropatici, asintomatici, che abbiano eseguito una valutazione clinica e strumentale con esito soddisfacente, possono soggiornare in montagna anche fino a 3.000 m. Un approccio individuale andrà seguito per le altre cardiopatie congenite o acquisite per le quali si dovrà tener conto anche delle particolari caratteristiche dell’ambiente montano (ipossia, isolamento, difficoltà di accesso a strutture ospedaliere attrezzate). Il paziente iperteso dovrà controllare frequentemente i suoi valori pressori, vista la tendenza ad un aumento durante la permanenza in quota. Due accorgimenti sono sempre validi: sottoporsi ad uno sforzo graduale e salire piano.