«Luca, nostro figlio di 13 anni, è affetto da cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro»
Cardiomiopatia aritmogena e sport: abbinamento impossibile, ma una alternativa potrebbe esserci
«Luca, nostro figlio di 13 anni, è affetto da cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro». Sandra, la mamma, ha iniziato così con voce ferma e decisa. «Lo scorso agosto, mentre rincorreva la sorellina, lo abbiamo visto cadere a terra. Sono stati pochi, interminabili secondi di terrore: era immobile, sguardo fisso nel vuoto, non respirava. Sapevamo che poteva accadere, ma non ci aspettavamo arrivasse così presto. Subito dopo, lo abbiamo visto sobbalzare e, grazie alla scossa del defibrillatore applicato solo tre mesi prima, ci è stato donato per la seconda volta. Il suo cuore si era fermato, così ci è stato spiegato. Per questo era stato necessario potenziare la terapia con cordarone e beta bloccanti». Il silenzio ha riempito la stanza all’improvviso. Luca: occhi neri, sguardo profondo e un dolce sorriso. Mentre cercavo la forza per parlare ho guardato il papà. Occhi lucidi, espressione triste: avevo la sensazione non trovasse le parole giuste per continuare la storia. Dopo pochi interminabili minuti di silenzio, Fabio, spinto da una forza che (ho compreso solo dopo) proveniva da tutta la sofferenza che aveva dentro, dice: «Sono io ad aver trasmesso il gene malato». L’esame genetico al quale quella famiglia si era sottoposta aveva sentenziato: mutazione della placofilina. Con gli occhi pieni di lacrime, ha raccontato di avere la stessa malattia di Luca, ma: «Sono meno grave di mio figlio». Il suo senso di colpa era palpabile: oltre ad aver trasmesso il gene malato a Luca, responsabile della cardiomiopatia killer, aveva infranto il sogno del figlio. Luca aveva sempre desiderato diventare un calciatore. Ma la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è una delle principali cause di arresto cardiaco o morte improvvisa nello sport. Morosini, Puerta, Astori, Pinarello e molti altri dai nomi meno famosi. È stata la scuola padovana a fare grandi progressi nella comprensione di questa patologia. In passato, veniva denominata “displasia aritmogena del ventricolo destro” e rifletteva il vecchio equivoco che fosse il risultato di un difetto congenito nello sviluppo del miocardio ventricolare destro. Solo dopo anni di ricerca, i nostri colleghi padovani, insieme ad altri gruppi di ricerca internazionali, sono riusciti a delinearne meglio lo scenario fisiopatologico.
A questa malattia, spesso secondaria a un difetto dei geni che codificano le proteine desmosomiali cardiache, è stata attribuita la definizione più appropriata di “cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro” (ARVC). Qualche anno dopo, grazie alle intuizioni derivate dagli studi post-mortem, dalle analisi di correlazione genotipo-fenotipo e dalla caratterizzazione del tessuto miocardico tramite risonanza magnetica cardiaca con mezzo di contrasto, si è potuto definire compiutamente l’origine della malattia.
La denominazione di “cardiomiopatia aritmogena” (ACM) sembrava riflettere meglio il concetto evolutivo della patologia del muscolo cardiaco, potendo coinvolgere anche entrambi i ventricoli, e ha progressivamente sostituito quella di ARVC. Successivamente, tale definizione sembrava troppo aspecifica: tutte le ACM sono potenzialmente aritmogene. È per questo che, recentemente, il gruppo padovano di ricerca ha ritenuto necessario rivedere la terminologia per preservare l’autonomia nosografica della malattia. È stata infatti proposta la designazione aggiornata di “Scarring/arrhythmogenic cardiomyopathy (S/ACM)” per evidenziare come il fenotipo della malattia fosse caratterizzato in modo distintivo dalla perdita del miocardio ventricolare dovuta alla morte dei miociti con riposizionamento del tessuto cicatriziale fibroso o fibro-adiposo. Questa condizione è comune nelle diverse varietà fenotipiche con coinvolgimento del ventricolo destro, di quello sinistro o di entrambi, indipendentemente dall’eziologia, sia nelle forme geneticamente determinate che nelle fenocopie. È la cicatrizzazione miocardica a predisporre alle aritmie ventricolari potenzialmente letali ed è alla base della compromissione della funzione ventricolare sistolica. Quindi, grazie ai più recenti studi, la patologia di Luca poteva essere riassunta come una forma di cardiomiopatia bi-ventricolare prevalentemente destra, con discreta componente cicatriziale del ventricolo sinistro, associata ad aritmie ventricolari in forma complessa da sforzo.
Nel silenzio dell’ambulatorio risuonava la paura, il senso di smarrimento e la tragedia che quella famiglia stava sopportando. Ancora una volta, è stata mamma Sandra a trovare la forza per continuare. «La storia di Luca – racconta – ha avuto inizio dopo la seconda valutazione medico-sportiva, quando la modifica dell’elettrocardiogramma (ECG) e le aritmie ventricolari registrate durante l’ultimo test da sforzo si erano dimostrate sospette e richiedevano un approfondimento». Come genitori si erano chiesti: come è possibile, se non ha mai avuto un sintomo e se la valutazione dell’anno scorso era risultata assolutamente normale? Domande legittime, che risuonano nel cuore di chi ama. Spesso, però, ci si trova ad affrontare sfide diagnostiche anche con colleghi che non possiedono competenze specifiche in materia.
Purtroppo, molti non sanno ancora che grazie al modello di screening medico-sportivo italiano, comprensivo di test da sforzo, ma soprattutto della ripetizione annuale, è possibile aumentare la potenzialità diagnostica di circa il 30% per patologie come quella di Luca. È stato il nostro gruppo assieme ai colleghi di Padova a dimostrarlo dopo aver analizzando più di 22.000 casi seguiti con un follow-up per circa 10 anni. Ciò che può essere “scoperto” oggi potrebbe non essere stato possibile rilevarlo l’anno precedente. Inoltre, il fatto che Luca fosse stato fino a quel momento completamente asintomatico non significava assolutamente nulla e la sua storia lo aveva dimostrato: arresto cardiaco in assoluto benessere, senza alcun segno di preavviso.
Sì, certo, Luca presentava un’alterazione dell’ECG con onde T negative da V1 a V3 (Figura1b), alterazioni che potevano essere erroneamente considerate compatibili con la giovane età visto quanto affermato dai più recenti documenti internazionali. In Italia, dopo tanti anni di screening abbiamo però imparato quanto importante sia il confronto con l’ECG dell’anno precedente. L’ECG del 2019 infatti (Figura 1a), mostrava onde negative confinanti in V1 e V2. La derivazione V3 aveva un’onda T positiva e la sua successiva negativizzazione era un segno evidente che qualcosa non stava funzionando. A questo si associavano aritmie ventricolari polimorfe e in forma complessa durante il test da sforzo. La risonanza magnetica eseguita poco dopo era chiara: quadro di cardiomiopatia aritmogena bi-ventricolare (Figure c,d).
Verrebbe quasi da dire: tutto qui. Mai un sintomo. Nulla che potesse far presagire una catastrofe evitata solo dalla lungimiranza di chi aveva deciso di impiantare il defibrillatore e ancora una volta, non dimentichiamolo, dalla potenzialità diagnostica dello screening medicosportivo che aveva imposto il giusto approfondimento grazie al quale era stata fatta la diagnosi. A quel punto è stato papà Fabio a continuare: cosa potrà fare dal punto di vista fisico? Potrà tornare a giocare a calcio? A scuola, potrà continuare con la sua attività fisica? E con gli amici, dobbiamo imporre delle limitazioni? «Il cardiologo ci ha detto che Luca non può assolutamente praticare “sport”, ma può nuotare e andare in bicicletta». Terminata la fase dell’inquadramento clinico, dopo aver trovato la terapia corretta, queste sono le domande più frequenti che un genitore pone al medico che ha in cura il figlio. E noi dobbiamo saper rispondere. Non possiamo fare la diagnosi, definire la miglior terapia e “abbandonare” il paziente e la sua famiglia al loro destino.
La situazione era cristallina, ma trovare la forza per affrontare una nuova delusione era un compito arduo. Il calcio, tanto amato da Luca, ora rappresentava un rischio troppo grande. Sport dinamico senza possibilità di controllarne l’intensità del gioco, scatti e ripartenze da fermo, potrebbero metterlo a rischio di una nuova scossa del defibrillatore. È una decisione dolorosa, ma dobbiamo sconsigliarlo. Anche il nuoto, ora si trasforma in una potenziale minaccia. Affermazioni che si affondano come una lama nella ferita ancora aperta di papà Fabio. Non se lo aspettava, soprattutto dopo le rassicurazioni dei giorni precedenti.
Far comprendere la gravità della situazione risulta fondamentale: un arresto cardiaco o una scossa del defibrillatore mentre nuota sarebbe un incubo da cui risvegliarsi potrebbe essere molto difficile. Nei loro occhi il dolore, la paura per il futuro incerto di Luca. Capiscono immediatamente. Trovare risposte adatte alla giovane età di Luca è un’impresa ardua. Lo sport comprende emozione, agonismo, competizione. Tutto ciò è deleterio e pericoloso in questo contesto. Ma a Luca ora servirebbe un programma con una gestione saggia dello sforzo fisico. Un allenamento costante, a un’intensità adeguata può essere tollerato, ma solo se viene garantita la massima sicurezza. In questa forma di S/ACM, gli sforzi intensi e i grandi volumi di allenamento possono aggravare la situazione e mettere a rischio la vita del paziente.
La gestione diventa fondamentale: è necessario un controllo costante della frequenza cardiaca con l’ausilio di un cardiofrequenzimetro. Ma Luca ha solo 13 anni, ed è facile intuire come tutto questo potrebbe sembrare impossibile per lui. Mentre in molti si interrogano sul perché in Italia un atleta con il defibrillatore impiantato non possa continuare a praticare sport, noi riteniamo fondamentale concentrarsi su altro. Prima di dare qualsiasi consiglio su quale attività fisica possa essere affrontata in sicurezza, è essenziale coinvolgere il paziente e i genitori in un percorso che li porti a raggiungere uno stato di consapevolezza e faccia accettare la patologia, imparino a conoscerla, a gestire la terapia farmacologica. Non è facile, automatico, indolore.
Sarebbe molto più semplice dire: continua pure con il tuo sport, tanto in questo caso sei protetto dal defibrillatore, come si fa nel resto del mondo e come in tanti vorrebbero. Invece, ecco l’insegnamento che ci viene consegnato da Luca: un ragazzino di 13 anni e dai suoi giovani amici. Quando si è cercato di capire cosa Luca conoscesse della sua patologia e se fosse possibile iniziare a definire insieme cosa potesse essere praticato dal punto di vista fisico, si è provato ad indagare a che punto fosse arrivato il suo stato di consapevolezza. «Come ti diverti con i tuoi amici, dopo tutto quello che è successo?». Con tutta la semplicità disarmante risponde: «Mi piace tanto giocare a ‘tana’ con i miei amici, ma abbiamo deciso che vince l’ultimo ad essere scoperto. Non facciamo tana». E perché? Lui rispose con la stessa naturalezza: «Perché i miei amici hanno capito che non posso correre». Benvenuto, Luca. Ora possiamo sintonizzarci sul futuro…
Bibliografia
1) Domenico Corrado. Scarring/ arrhythmogenic cardiomyopathy. European Heart Journal Supplements (2023) 25 (Supplement C), C144–C154
2) Corrado D. Arrhythmogenic right ventricular cardiomyopathy. N Engl J Med 2017; 376:61–72
3) Corrado D. Arrhythmogenic cardiomyopathy. Circ Res 2017; 121:784–802
4) Pilichou K. Arrhythmogenic cardiomyopathy. Orphanet J Rare Dis 2016; 11:3
5) Sanjay Sharma. International recommendations for electrocardiographic interpretation in athletes. Eur Heart J. 2018 Apr 21;39(16):1466-1480
6) Patrizio Sarto. Value of screening for the risk of sudden cardiac death in young competitive athletes. European Heart Journal (2023) 44, 1084–1092