La Trattoria del Rosso

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La Trattoria del Rosso

La trattoria del Rosso (Nicola, che ci ha lasciati troppo presto, si era inventato questo nome per via dei capelli del proprietario) era a metà strada. Che si andasse a Potenza, Napoli, Salerno non cambiava di molto. Gli autisti dell’ambulanza non sentivano ragioni: “ci fermiamo, mangiamo qualcosa… poi torniamo”; e così era diventata una tappa fissa del viaggio di rientro le volte che si partiva di mattina.
Negli anni ‘80 i cardiologi e gli infermieri di Cosenza viaggiavano molto, di giorno, di notte, di festa o di giorni feriali. Nella regione non c’era una cardiochirurgia operativa e i pazienti da operare venivano trasferiti in ospedali fuori regione, con ricoveri programmati o in urgenza/emergenza.
Si arrivava di solito nel primo pomeriggio, appena lasciata l’autostrada. “Favorite”, diceva il Rosso accogliendoci con un sorriso sulla porta di un grande locale destinato a ricevimenti, e la sera a pizzeria. A sinistra il bancone del bar, di fronte il forno con la catasta di legna pronta per ardere, a destra una grande sala con le pareti azzurre, lungo i muri colonnine di gesso, un grande dipinto col mare e le montagne sullo sfondo.
A quell’ora i tavoli erano vuoti, senza tovaglie, attorno semplici sedie una diversa dall’altra, pronte a diventare uguali per i ricevimenti, rivestite di stoffa chiara con un grande fiocco dietro la spalliera. In un angolo, lontano dalla porta, due bambini, i figli del Rosso, a fare i compiti. Credo passassero in quel locale gran parte della loro vita, il Rosso, i suoi figli e la moglie, una donna bruna, sovrappeso, continuamente impegnata a pulire, preparare per la sera, dare un’occhiata ai compiti dei bambini. Anche lei era contenta di vederci arrivare, come fossimo persone di famiglia.
Avevi l’impressione che tra un viaggio e l’altro non ci fossero altri eventi a interrompere la monotona routine di quelle persone e di quei luoghi. Anche il menù non cambiava: fettuccine ai funghi, una fettina di carne alla griglia, non particolarmente tenera, patatine fritte, verdure sott’olio e in estate pomodori, frutta, caffè. A fine pranzo un rapido arrivederci e via. Tornavamo in ospedale che era sera, e poi finalmente a casa, non senza aver prima dato uno sguardo ai malati più seri.
È stato così per molti anni, fino a quando la Regione si è dotata di efficienti reparti di cardiochirurgia sollevando noi, i malati e le loro famiglie da complicati, faticosi e a volte rischiosi percorsi di cura. Qualche anno dopo, di ritorno da un viaggio, lasciai l’autostrada per ritornare alla “nostra” trattoria, in uno stesso primo pomeriggio.
Era cambiato davvero poco; gli stessi arredi, gli stessi colori, gli stessi odori, come se il tempo si fosse fermato. Le cose restano uguali se non siamo noi a modificarle, a differenza delle nostre vite che cambiano e di tanto col passare del tempo: non facevamo più quei viaggi faticosi, per noi, ma soprattutto per i nostri malati che potevano essere curati vicino alla loro casa e ai loro familiari. Il Rosso si era imbiancato e appesantito, gli era rimasto però lo stesso sorriso, la stessa cortesia e lo stesso modo di accoglierti: che piacere vedervi (nel Sud si usa ancora il voi), favorite!
I bambini, ormai adulti, avevano completato gli studi e avevano lasciato la loro terra per un lavoro al Nord. Non c’era più la signora che ci preparava il pranzo e ci serviva al tavolo; al suo posto una donna ancora giovane con i capelli biondi e la pelle chiara.
Non so se la nostra trattoria c’è ancora, e se c’è voglio pensare che sia rimasta uguale a quella di tanti anni fa…
Per questo non mi sono più fermato.

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