La fragilità nel soggetto anziano cardiopatico

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La fragilità nel soggetto anziano cardiopatico

Una sindrome non solo per geriatri ed una nuova problematica per i Cardiologi

Con l’invecchiamento della popolazione diventa importante la diagnosi e come orientarsi nella pratica clinica quotidiana

La fragilità è una sindrome multifattoriale caratterizzata da una riduzione della fisiologica riserva funzionale e della capacità di resistere a eventi stressanti ambientali. Tale sindrome può essere presente anche in soggetti apparentemente in buone condizioni generali. Il paziente fragile è un soggetto solitamente in età avanzata, spesso affetto da patologie multiple, con uno stato di salute instabile, frequentemente (non necessariamente) già disabile, in cui gli effetti dell’invecchiamento e delle malattie sono spesso complicati da problematiche di tipo socioeconomici.

Importanza clinica
Fondamentale è ricordare che fragilità non è sinonimo di disabilità, invecchiamento o comorbidità, sebbene queste caratteristiche siano spesso presenti. La fragilità esercita un potente effetto sugli outcome anche al di fuori di eventi critici: è stato osservato che in anziani ipertesi in trattamento farmacologico l’incidenza di cadute “gravi” (esitanti in fratture, lesioni cerebrali o lussazioni) è prevedibile sulla base degli indici di fragilità, piuttosto che del tipo o dosaggio dei farmaci antipertensivi assunti. La fragilità è una condizione dinamica, nella quale i pazienti passano attraverso diversi stati di gravità, è quindi fondamentale una diagnosi precoce.

Epidemiologia e prognosi
La fragilità è presente in circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco, tanto da far ritenere che scompenso cardiaco e fragilità condividano diverse vie fisiopatologiche. In pazienti con scompenso cardiaco la fragilità si associa ad una maggiore gravità del quadro cardiologico e ad una maggiore complessità clinica, oltre che ad aumentata mortalità ed ospedalizzazione. Tale associazione si osserva nello scompenso cardiaco cronico, nell’acuto stabilizzato, e nelle forme avanzate trattate con device ventricolari. La presenza di fragilità è stata rinvenuta in un paziente su quattro affetto da aritmie cardiache. Nella fibrillazione atriale, la presenza di fragilità si associa ad un’aumentata incidenza di ictus, e di mortalità per tutte le cause, a maggiore gravità dei sintomi ed aumentata durata dei ricoveri ospedalieri. La fragilità in pazienti anziani con fibrillazione atriale non valvolare ha anche notevoli implicazioni nelle scelte terapeutiche: la fragilità infatti risulta associata ad una minore probabilità di prescrizione di anticoagulanti orali, in particolare di quelli non antagonisti della vitamina K, nonostante vi siano dati che supportino l’uso di questi farmaci in tali pazienti complessi. In pazienti candidati a TAVI o sostituzione valvolare aortica chirurgica l’impatto della fragilità su sopravvivenza e capacità funzionale è tale da portare a sconsigliare la protesizzazione valvolare aortica dei pazienti fragili. In generale quindi in Cardiologia è ormai consolidata l’importanza della fragilità sulla prognosi dei pazienti, tanto da renderne imperativo uno screening nel normale iter diagnostico anche del paziente cardiologico apparentemente “fit”. La diagnosi di fragilità non ha infatti solo un mero significato classificativo.

La diagnosi Attualmente la vera sfida è trovare una scala che definisca la fragilità nei pazienti cardiopatici che possa essere sufficientemente affidabile in termini di sensibilità e specificità, ma che contemporaneamente possa essere di facile e veloce somministrazione ed interpretazione anche da parte di non geriatri. È inoltre di estrema importanza che la scala consenta di rilevare gli stadi nei quali è ancora presente una potenziale reversibilità della fragilità. Dal punto di vista operativo esistono svariate definizioni e corrispondenti scale di valutazione della fragilità; le due maggiormente utilizzate in ambito geriatrico, ma che sono anche state utilizzate in ambito cardiologico, sono:

  • il “fenotipo fragile”, descritto da Linda Fried;
  • il “Frailty Index”, sviluppato da Rockwood.

Accanto a queste due scale “storiche”, sono man mano state proposte e validate altre scale, spesso utilizzate anche in ambito cardiologico. Il problema è che non sempre scale rapide e veloci sono adeguatamente performanti. Ancora, le diverse scale sono intercambiabili? Ovvero, può una scala in grado di predire il rischio di cadute essere usata anche per studiare i meccanismi fisiopatologici che sottintendono la fragilità? In realtà, sono state utilizzate scale diverse a seconda che lo scopo fosse la stima di un rischio, l’eziologia della fragilità, l’esplorazione di biomarcatori, la selezione di soggetti per criteri di inclusione/esclusione, la stima della prevalenza come obiettivo fine a sé stesso, la stima della fragilità come target di intervento, oppure l’identificazione della fragilità nell’ambito del processo di decision-making. La vera sfida è quindi trovare una scala che possa essere sufficientemente sensibile e specifica e che possa essere adattata ai vari setting nei quali il paziente cardiopatico si trova inserito: intensivo e/o acuto, riabilitativo o ambulatoriale. In generale comunque in ambito cardiologico il giudizio clinico rapido al letto del paziente, qualsiasi sia la scala utilizzata, non costituisce un metodo affidabile per determinare la fragilità.

Qualche consiglio per la pratica clinica
In attesa di un gold standard che definisca la fragilità nel paziente anziano cardiopatico, i consigli che attualmente possono essere forniti sono:

  • data la prevalenza e l’impatto clinico della fragilità, considerare a priori un paziente anziano cardiopatico come potenzialmente fragile finché non si dimostra il contrario.
  • Utilizzare scale di screening che possano rappresentare, nel proprio contesto lavorativo, un buon compromesso tra tempo e risorse impiegate per lo screening e risultati attesi dalla valutazione.
  • Creare dei percorsi specifici per i pazienti identificati come fragili, così che possano ricevere una valutazione multidimensionale geriatrica atta ad assicurare il migliore trattamento finalizzato a correggere, ove possibile, le condizioni che causano la fragilità.

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