Il consenso informato rappresenta una condizione di liceità per qualsivoglia trattamento sanitario nell’ambito di un rapporto contrattualizzato – anche economicamente – tra medico e paziente. Il principio e la pratica e l’obbligo del consenso informato non doveva diventare:
1. Uno strumento di attribuzione al sanitario della responsabilità dell’evento infausto, ovvero di definizione (dimostrazione) della responsabilità del sanitario per l’evento infausto.
2. Uno strumento preventivo difensivo da parte del sanitario rispetto alla possibilità di essere incolpato per eventuali eventi infausti.
La nozione e la pratica importantissima del consenso informato hanno assunto così due vesti patologiche opposte, dai significati almeno gestionali che però possono essere considerati corrispondenti. Sotto il primo profilo, fermo il diritto del malato di non essere curato nel rispetto della sua scelta, fra le diverse possibilità concrete esistenti e prospettategli, ferma la responsabilità del sanitario che opera sulla base del consenso, appare abnorme la configurazione della responsabilità dell’evento infausto, rischio tipico dell’operazione sanitaria condotta per salvare o difendere la salute del paziente (può essere considerato emblematico il caso dell’angioplastica), basata sulla mancanza in cartella del consenso del paziente. È stato configurato persino l’omicidio preterintenzionale, sulla base del delitto doloso di lesioni personali (quindi volontarie), costituito dall’operazione effettuata in assenza di consenso(1).
Parallelamente, e per converso, molto diffusamente, è invalsa presso i medici l’abitudine di descrivere analiticamente e pedissequamente tutto quanto in letteratura sia stato rappresentato come possibile in relazione alla terapia da praticare, in corposissimi documenti fatti sottoscrivere al paziente, che il paziente sottoscrive senza leggere né comunque capire bene, ciò secondo l’idea ovvero nella convinzione che tali elencazioni formalmente notificate e quindi note al paziente, sottoscritte dal paziente, salvino il medico dal giudizio di responsabilità per il verificarsi proprio di “quegli” accadimenti.
Come in ogni circolo vizioso, è difficile distinguere la causa dall’effetto, la testa dalla coda. Tali idee o convinzioni traggono alimento dalle decisioni giudiziarie in cui è stata enfatizzata la rilevanza del consenso informato, oltre il rispetto del diritto del malato a) di non essere curato e b) di essere informato, a definire la responsabilità per gli eventi infausti accaduti e pure a escludere la stessa per la previsione dell’evento verificatosi nel consenso sottoscritto dal paziente.
Il consenso informato indica la possibilità di scelta del paziente nella sua (non) libera autodeterminazione ex art. 13 Cost., non certo il diritto alla salute ex art. 32 Cost. Se la convenzione di Oviedo (1997, ratificata in Italia nel 2001) per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina costituisce l’incipit nella disciplina del “consenso”, ex artt. 4,5, la Legge 22 dicembre 2017, n. 219 recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” affronta la delicata tematica del c.d. “consenso informato”, disciplinandone le modalità di espressione e di revoca, nonché le condizioni e le disposizioni anticipate di trattamento, al fine di disciplinare una tematica molto delicata quale quella di consentire all’individuo di dichiarare il proprio orientamento sul c.d. “fine vita”, nel caso in cui sopravvenga una incapacità di intendere e di volere.
Il testo normativo è composto da 8 articoli: il primo articolo è dedicato alle linee generali in tema di consenso informato, e vengono richiamati i principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e viene data particolare attenzione al rapporto fiduciario tra medico e paziente, con il coinvolgimento anche dei familiari di quest’ultimo, il convivente o altre persone di fiducia. Nello stesso articolo viene disciplinato il diritto all’informazione di ogni persona di conoscere le proprie condizioni di salute e, quindi, di essere informata in maniera comprensibile in relazione alla diagnosi, prognosi, rischi e benefici del trattamento sanitario e le conseguenze per il caso di rifiuto al trattamento medesimo. Il consenso informato può essere espresso in forma scritta e deve essere inserito all’interno della cartella clinica, anche se è prevista la possibilità di esprimere tale consenso mediante videoregistrazione o altre apparecchiature elettroniche di comunicazione. Il consenso informato può essere sempre revocato e viene stabilito il principio secondo cui ogni persona maggiorenne, ovviamente capace di intendere e di volere, ha il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario. In caso di situazioni di emergenza il medico è tenuto sempre ad assicurare l’assistenza sanitaria indispensabile al paziente, rispettando, se possibile, la volontà del medesimo.
Secondo quanto stabilito dall’art. 3 della Legge, il consenso informato da parte dei minori è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore, mentre per l’interdetto il consenso è espresso dal tutore sentito l’interdetto, sempre nel rispetto della dignità della persona. Il consenso può essere espresso o rifiutato anche da parte dell’amministratore di sostegno, ove nominato, tenuto conto della volontà del beneficiato. La necessità del consenso è esclusa in due ipotesi: la prima riguarda i TSO (trattamenti sanitari obbligatori) che perseguono finalità di salute pubblica; la seconda afferisce allo stato di necessità ex articolo 54 c.p., dove si prevede la non punibilità di chi ha posto in essere il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo (non punibilità per morte e lesioni causate nella somministrazione del vaccino).
Con la sentenza 9 febbraio 2023, n. 14 la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento all’art. 32 Cost., dell’art. 4, commi 1 e 2, del D.L. n. 44/2021, come convertito, nella parte in cui prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario e, dall’altro lato, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie per effetto dell’inadempimento dello stesso, nonché, in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost., dell’art. 1 della L. n. 219/2017, nella parte in cui non prevede l’espressa esclusione dalla sottoscrizione del consenso informato nelle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, e dell’art. 4 del D.L. n. 44/2021, come convertito, nella parte in cui non esclude l’onere di sottoscrizione del consenso informato nel caso di vaccinazione obbligatoria, poiché la scelta assunta dal legislatore al fine di prevenire la diffusione del virus, limitandone la circolazione, non può ritenersi irragionevole né sproporzionata, alla luce della situazione epidemiologica e delle risultanze scientifiche disponibili.
Premessa la rilevanza della raccolta del consenso pure per un’adeguata emersione dei dati essenziali per una completa e corretta anamnesi pre-vaccinale, destinata, tra l’altro a valutare l’eleggibilità dell’interessato alla vaccinazione, la natura obbligatoria del vaccino in questione non ha escluso la necessità di raccogliere il consenso informato, che viene meno solo nelle ipotesi in modo espresso previsti dalla legge, come statuito dal comma 1 dell’art. 1 della Legge n. 219/2017. L’obbligatorietà del vaccino, ha spiegato la Consulta nella stessa occasione precisata, lascia comunque al singolo la possibilità di optare se adempiere o sottrarsi all’obbligo, assumendosi responsabilmente, in tale secondo caso, le conseguenze previste dalla legge. Se, piuttosto, il singolo adempia all’obbligo vaccinale, il consenso, pur a fronte dell’obbligo, è rivolto, proprio nel rispetto dell’intangibilità della persona, ad accordare la materiale inoculazione del vaccino.
Confermata nella sua veste originaria la norma che esonera il personale che somministra i vaccini dalla responsabilità per omicidio colposo o lesioni colpose, l’esonero di responsabilità è configurato testualmente come una causa di esclusione della punibilità, subordinata alla prova che il vaccino è stato utilizzato conformemente alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e alle circolari del Ministero della Salute sull’attività di vaccinazione (art. 3). Si definisce in tal senso lo scudo penale per medici e infermieri, per il periodo di emergenza Covid, limitando la responsabilità penale del personale medico per i delitti di omicidio colposo e lesioni personali avvenute nel periodo dell’emergenza (art. 3 bis). Beneficiano di uno “scudo penale” i reati avvenuti nell’esercizio di una professione sanitaria che trovano causa nella situazione di emergenza. La punibilità avviene infatti solo in caso di colpa grave del medico. La nuova norma precisa inoltre che tra i fattori che possono escludere la gravità della colpa, il giudice potrà considerare anche: la limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie provocate dal virus e sulle terapie appropriate; la scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero di casi da trattare; il minor grado di esperienza e conoscenze tecniche del personale non specializzato impiegato durante l’emergenza.
C’è un principio giurisprudenziale consolidato secondo cui l’obbligo del medico di informare il paziente per il consenso alle cure non è una regola cautelare, perché non è una regola posta a tutela della salute, ma del diritto ad una scelta consapevole del paziente(2). Con la conseguenza che l’omessa informazione non dà luogo a colpa per morte o lesioni personali del paziente derivati dal trattamento. Ad esempio, il chirurgo non informa il paziente dell’elevato rischio emorragico quale complicanza dell’intervento. Se il rischio poi si verifica, con esito anche mortale, il chirurgo non è punibile per non avere informato il paziente e sempreché, ovviamente, non ci sia colpa nell’esecuzione dell’intervento. Ci sono, tuttavia, due precedenti di legittimità recenti con i quali si è affermata la colpa per non avere il medico informato il paziente sulla necessità di approfondire il quadro clinico. E ciò quando il paziente si è autodimesso contro il parere dei medici ed è poi deceduto per l’evoluzione del quadro non approfondito. Colpa quindi per inosservanza dell’obbligo informativo. Semplicemente per non avere detto al paziente: “Attenzione sig. Rossi: vuole andare via, ma sappia che non abbiamo finito, c’è ancora da fare per arrivare a capire perché non sta bene”.
Suona come una minaccia da prendere in seria considerazione, perché si sa che i principi giurisprudenziali, anche quelli più solidi, sono a rischio di sgretolamento quando si aprono crepe. Due sono i motivi d’interesse giuridico per l’argomento: la novità di questa giurisprudenza e la minaccia che essa muove a quella consolidata. Ma c’è anche un motivo d’interesse sociale: l’attuale “fuga” dai Pronto Soccorso non è solo dei medici, ma anche dei pazienti, che quando ci vanno sempre più spesso si stancano per l’attesa e si allontanano, prima di avere completato il percorso diagnostico. Un paziente accede in Pronto Soccorso lamentando dolore toracico irradiato al braccio sinistro. Viene eseguito un tracciato elettrocardiografico, che evidenzia segni infartuali. Il tracciato non viene refertato e non viene chiesta una consulenza cardiologica. Il paziente decide di allontanarsi. Si autodimette contro il parere dei due medici che se ne stanno occupando. Annotano “toracoalgia” e prescrivono ibuprofene a scopo antalgico. L’indomani il paziente muore.
Si accerta con autopsia che la causa di morte è stata un infarto acuto del miocardio. Si procede penalmente contro i due medici, per avere formulato una diagnosi errata: “toracoalgia”, omesso di richiedere una consulenza cardiologica, d’instaurare un’idonea terapia e di ricoverare il paziente. I medici si difendono sostenendo che era stato il Paziente a volere essere dimesso, nonostante loro avessero fatto di tutto per trattenerlo e per completare quindi il percorso di cura. Viene ritenuta la loro responsabilità dal Tribunale, con motivazione che la Corte d’Appello condivide, dichiarando prescritto il reato. A base della decisione si pone la massima di esperienza per la quale chi si reca al Pronto Soccorso in piena notte per dolore irradiante al torace difficilmente si allontana, addirittura contro il parere dei medici, senza aver ricevuto una diagnosi tranquillizzante(3). La Cassazione conferma, richiamando il recente precedente(4), per cui è configurabile la colpa se il medico, in presenza di un quadro da approfondire, non osservi l’obbligo cautelare informativo di rendere edotto il paziente circa l’insufficienza dei dati diagnostici acquisiti per individuare l’effettiva patologia che lo affligga, così da prevenire il rischio di scelte inconsapevolmente ostative agli approfondimenti diagnostici e alle cure.
Questa giurisprudenza espressamente qualifica cautelare l’obbligo informativo del paziente che non acconsente agli accertamenti diagnostici. Secondo tale giurisprudenza il fine dell’informazione nell’ipotesi del paziente che rifiuta non è solo la tutela del suo diritto ad una scelta consapevole, ma anche la tutela della sua salute, che può subire un danno se è omessa l’informazione. E cioè può subire il danno che può produrre l’evoluzione del quadro non prospettata al paziente. L’ipotesi del paziente non informato che rifiuta le cure è diversa da quella del paziente non informato che ha espresso il consenso alle cure, perché in quest’ultima ipotesi dall’omessa informazione non può prodursi un danno alla salute.
Questo è affermato a chiare lettere dalla giurisprudenza consolidata: l’obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare, non essendo preordinato ad evitare fatti dannosi, ma a tutelare il diritto del paziente alla scelta consapevole. Ad es., un danno emorragico per lesione di vasi arteriosi durante un intervento di chirurgia addominale può essere causato per imperizia nel clivaggio di strutture anatomiche o come complicanza non causata da imperizia, ma dovuta a tenaci aderenze, createsi fisiologicamente dopo un precedente intervento nel sito. Quindi in termini generali, nel caso del paziente non informato che ha espresso il consenso, il danno può essere conseguenza di un trattamento imperito o di una complicanza di un trattamento perito, ma non conseguenza dell’omessa informazione.
Per l’omessa informazione, dunque, possono derivare due conseguenze:
l’ignoranza del paziente che ha acconsentito alle cure non può uccidere,
l’ignoranza del paziente che ha rifiutato le cure può uccidere(5).
Tuttavia, questa nuova giurisprudenza non appare condivisibile su un punto e cioè quando immotivatamente nega che sia una regola scritta l’obbligo informativo al paziente che rifiuta le cure. Infatti l’art. 1 co. 3 legge 219/2017 prevede espressamente che il paziente vada informato delle “conseguenze di un eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico”.
La regola è quindi legislativamente posta e se si afferma la natura cautelare della regola, la conclusione è obbligata: l’omessa informazione al paziente che rifiuta gli accertamenti diagnostici dà luogo a colpa specifica. Sul piano degli effetti giuridici non cambia nulla: la colpa si configura comunque, generica o specifica che la si ritenga. Tuttavia la citazione dell’art. 1 co. 3 cit. e l’affermazione di colpa specifica renderebbe questa giurisprudenza tecnicamente più precisa. Prenderebbe atto del seppellimento legislativo di quella sparuta giurisprudenza precedente alla legge, che riteneva sufficiente l’informazione al paziente sulla sola natura, ad es. cardiologica, degli accertamenti rifiutati, senza necessità di dovere precisare le conseguenze del rifiuto.♥
Bibliografia
1 Cfr, S. Aleo, Tutela sociale della salute e funzione penale, Pisa 2023, pp. 87 ss.
2 Cfr. Cass. Sez. IV, sent. 20 ottobre 22 (dep. 24 gennaio 2023) n. 2850, Pres. Dovere, est. Ricci. Il principio è stato formulato per la prima volta da Cass. Sez. IV, 37077-08, M., est. Piccialli, in Giunta e altri, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità, E.S.I., 2011. A seguire: Id, 37875-09, Jaus, est. Massafra; Id, 4541-13, Carlino, est. Massafra; Id, 18180-13, Noviello, est. Esposito; Id, 43454-13, Savasta, est. Ciampi; Id, 21537-15, Di Giulio, est. Piccialli; Cass. Sez. V, 16678-16, Crotti, est. Settembre; Cass. Sez. IV, 2354-18, Huscher, est. Piccialli; Id, 48619-22, Aldigretti, est. Dovere. In dottrina la questione della natura cautelare o no dell’obbligo informativo è poco affrontata in modo diretto. In termini generali, v. per tutti: F. Viganò, Commento all’art. 50 c.p., in E. Dolcini, G. Marinucci, G. Gatta, Codice Penale Commentato, Wolters Kluwer, 2015, 817.
3 Cfr. Cass. Sez. IV, sent. 20 ottobre 22 (dep. 24 gennaio 2023) n. 2850, Pres. Dovere, est. Ricci.
4 Cass. Sez. IV, 8464-22, Pennacchio, est. Serrao.
5 Quando viene in gioco il diritto alla salute crolla il principio dell’irrilevanza dell’omessa informazione. La stessa giurisprudenza consolidata esclude l’applicazione del principio quando l’omessa informazione è dovuta ad un’incompleta anamnesi, che ha impedito una corretta diagnosi. Un chiaro esempio di questa eccezione è dato da Cass. Sez. IV, 21537-15, Di Giulio.