I Grandi studi epidemiologici. Il Framingham Heart Study

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I Grandi studi epidemiologici. Il Framingham Heart Study

Intorno alla metà del 900, negli Stati Uniti si osservarono numerosi decessi, anche improvvisi, di uomini di mezza età, apparentemente sani. Le diagnosi di infarto miocardico acuto e di ictus cerebrale si andavano moltiplicando, prendendo il posto delle malattie infettive come principali cause di morte. Nel 1948, il 44% dei decessi negli U.S.A. furono attribuiti alle malattie cardiovascolari, con un incremento del 20% in soli 8 anni. Gli esperti iniziarono a sospettare che dietro questo fenomeno vi fossero vari fattori, tra cui la diffusa distribuzione gratuita di sigarette ai soldati americani durante la Seconda guerra mondiale e l’ipertensione arteriosa (già negli anni ‘30 le compagnie assicurative si erano rese conto di un’associazione tra valori pressori e malattie cardiovascolari). Nel 1948, mentre i giornali annunciavano “l’epidemia delle malattie cardiovascolari”, il Presidente Truman firmò il National Heart Act che istituiva il National Heart Institute (NHI) includendo un grant di 500,000 dollari per uno studio epidemiologico ventennale, il cui disegno fu affidato a un giovane medico del Public Health Service, Gilcin Meadors. Il famoso cardiologo di Harvard, Paul Dudley White, suggerì come sede la cittadina di Framingham, in Massachusetts, i cui 28,000 abitanti erano un perfetto campione rappresentativo della multietnica classe media americana. Altre caratteristiche favorevoli alla cittadina erano la presenza di solo due ospedali e la facilità di accesso ad alcune famose istituzioni sanitarie. A pochi mesi dall’arruolamento del primo paziente, nell’ottobre 1948, il NHI (successivamente denominato National Heart, Lung, and Blood Institute – NHLBI), prese la direzione dello studio. I ricercatori, sotto la direzione di Thomas Dawber, reclutarono 5,209 uomini e donne di età dai 30 ai 62 anni che non avevano ancora sviluppato malattie cardiovascolari, iniziando esaustivi esami obiettivi ed interviste sullo stile di vita e continuando poi a sottoporli a controlli clinici e laboratoristici biennali. Nel 1971, lo studio ha arruolato una seconda generazione, figli dei partecipanti originali e dei loro coniugi (Offspring Cohort). Nel 1994, sulla scorta della necessità di includere comunità diverse, fu arruolata la prima coorte Omni. Nel 2002 fu arruolata una terza generazione di partecipanti, nipoti della coorte originale (Third Generation Cohort), e nel 2003 una seconda coorte Omni e una nuova Offspring Spouse Cohort. Il metodo di reclutamento è passato da una sollecitazione su base volontaria al reclutamento attivo di un campione casuale di adulti.

Alla fine della sovvenzione ventennale, l’NHI ha annunciato l’intenzione di eliminare gradualmente lo studio, ma il presidente Nixon, convinto da White, persuase l’NHI a rivedere la sua posizione. L’attento monitoraggio della popolazione di Framingham ha portato all’identificazione dei principali fattori di rischio cardiovascolare – ipertensione, colesterolo alto, fumo, obesità, diabete e inattività fisica – nonché di molte informazioni preziose su livelli ematici di trigliceridi e colesterolo HDL, età, genere e fattori psicosociali. Nell’ultimo mezzo secolo, lo studio ha prodotto circa 1.200 articoli nelle principali riviste mediche. Oggi, ogni cardiologo riconosce l’importanza del Framingham Heart Study nella cardiologia preventiva. Le prime pubblicazioni si sono occupate di ipertensione, riportando che questa (definita con valori ≥ 160/95 mmHg) conferiva un rischio quattro volte maggiore di sviluppare una coronaropatia, e rilevando nel 1965 anche un aumentato rischio di ictus, maggiore rispetto a quello per la cardiopatia ischemica. Nel 1978 lo studio ha dimostrato che la fibrillazione atriale non reumatica conferisce un aumento di cinque volte del rischio di ictus. È stato riscontrato che il diabete conferisce un rischio tre volte maggiore di mortalità cardiovascolare. Quando le misurazioni delle sottofrazioni del colesterolo sono diventate disponibili, lo studio ha documentato l’importanza dell’elevato colesterolo LDL e del basso colesterolo HDL. Il concetto stesso di “fattori di rischio”, che ha portato allo sviluppo di strategie di trattamento e prevenzione efficaci nella pratica clinica, è stato sostenuto in una pubblicazione di Dawber e Kannel del 1961 sugli Annals of Internal Medicine intitolata “Factors of risk in the development of coronary artery disease”.

Le osservazioni dello studio hanno consentito, nel 1967, la creazione di un modello logistico multivariato per la previsione del rischio futuro di un evento coronarico in un singolo paziente, utilizzando sette fattori: età, pressione arteriosa sistolica, numero di sigarette fumate, colesterolo totale, anomalie dell’ECG, peso ed emoglobina. Gli uomini e le donne nel decile più alto avevano un rischio 30 volte e 70 volte maggiore rispetto a quelli nel decile più basso. Nel 1998 il nuovo calcolatore, il Framingham Risk Score, ha stabilito tre categorie di rischio a 10 anni, diventando la base riconosciuta a livello mondiale per il processo decisionale nella gestione preventiva degli individui a rischio. Nel 1971, il Framingham Heart Study creò un pannello di nove criteri principali e sette criteri minori, ancora impiegati in innumerevoli studi clinici in tutto il mondo; l’insufficienza cardiaca è stata definita come la presenza di almeno due criteri principali o di un criterio maggiore e due criteri minori. L’infarto del miocardio è stato associato a un aumento di sei volte del rischio di insufficienza cardiaca. Negli anni successivi, lo studio ha analizzato la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti con insufficienza cardiaca. Nel primo rapporto del 1971, il 60% degli uomini era morto entro cinque anni dalla diagnosi e l’80 per cento entro 10 anni. Negli anni ‘90, nonostante l’introduzione di nuove farmacoterapie, la mortalità era diminuita solo modestamente. I dati di Framingham rivelarono anche che le manifestazioni cliniche di insufficienza cardiaca spesso esistevano in assenza di disfunzione sistolica, e che esisteva una gradazione nella prognosi a lungo termine tra pazienti senza insufficienza cardiaca clinica, con insufficienza diastolica e con insufficienza sistolica. Grazie al Framingham Heart Study, che continua anche a dare importanti contributi alla ricerca su nuove altre aree, come il ruolo dei fattori genetici nelle malattie cardiovascolari, nuove tecnologie diagnostiche, come l’ecocardiografia, l’ecografia carotidea, la risonanza magnetica del cuore e del cervello, le scansioni TC del cuore e dei vasi sono state integrate nei protocolli sanitari.

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