“Fanno la diagnosi e poi li abbandonano a sé stessi”
La vita di quell’atleta viene stravolta in pochi secondi
Sogni, speranze e aspettative vengono spazzate via in un batter d’occhio
L’atleta entra in un tunnel senza uno spiraglio di luce
Qualche anno fa un giovane filmmaker, di 25 anni, Mattia Beraldo, mi ha chiesto di raccontare parte del mio lavoro attraverso le immagini. Non avevo alcuna esperienza in quel tipo di comunicazione, ma proprio per questo ho deciso di fidarmi e accettare. È nato così “Il secondo tempo di Julian Ross”, un cortometraggio presentato nel contesto della 79ª Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il corto è stato realizzato con un cast eccezionale: Fabio Sartor, uno dei più grandi attori italiani di teatro, ha interpretato il ruolo di Mister Fabio; Lorenzo Checchin, alla sua prima esperienza, ha vestito i panni di Luca, un giovane calciatore fermato dallo sport per un problema cardiaco. Le musiche del Maestro Diego Basso hanno arricchito ulteriormente il progetto. La sceneggiatura, scritta da Mattia e affiancato da Ernesto Milanesi, cronista, giornalista e autore teatrale, era stata costruita per dare voce alla disperazione di un giovane ex atleta diventato paziente troppo presto. L’argomento era “caldo”. Il mondo dello sport, e non solo, era stato scosso dalle immagini di Christian Eriksen a terra, privo di vita, pochi minuti dopo l’inizio della partita inaugurale del campionato Europeo del 2021 tra Danimarca e Svezia. L’intervento tempestivo dei sanitari scongiurò il peggio. Dopo 1 minuto e 48 secondi circa, Eriksen riaprì gli occhi e probabilmente stava già pensando: quando potrò tornare a giocare? Mentre tutti si ponevano la stessa domanda, noi abbiamo deciso di dare voce alla disperazione di un atleta non famoso, senza riflettori puntati, che stava vivendo però la stessa tragedia sportiva. Dopo la diagnosi di malattia cardiaca potenzialmente a rischio di arresto cardiaco, potrò tornare a fare ciò che amo? La storia costruita dagli autori ha solo sfiorato il problema di Eriksen, concentrandosi invece su quali opportunità possono essere offerte a chi deve affrontare la “tragedia” della non idoneità allo sport. Il mantra gira attorno a una parola: consapevolezza. Ma c’è anche molto altro che non può essere trascurato. In una scena molto significativa del corto, Mister Fabio parla al telefono con la mamma di Luca, spiegandole le sue preoccupazioni dopo la recente diagnosi che impedirà a Luca di continuare a giocare a calcio. “Non rallenta mai, guardi, forse anche più di prima” dice Mister Fabio.
La mamma di Luca, la cui voce è interpretata dall’attrice teatrale Erica Taffaro, non riesce a nascondere la sua disperazione nel vedere Luca lontano dal campo di gioco: “Devo forse tenerlo in casa? Io sono sola e Luca deve fare sport!”. “Lo so,” risponde Mister Fabio, “fanno la diagnosi e poi li abbandonano a sé stessi. Siamo noi che dobbiamo offrire loro delle alternative. Si fidi, Barbara, noi ci siamo!” Con queste parole, Mister Fabio conclude la telefonata. Questa affermazione, “fanno la diagnosi e poi li abbandonano”, arriva da una storia che ci è stata “regalata” da Mamma Francesca e Papà Roberto, due giovani genitori che non riuscivano a trovare dai loro interlocutori un’alternativa per il figlio Andrea, affetto da una cardiopatia congenita grave e sottoposto a intervento cardiochirurgico in giovanissima età. Motivo per cui ci avevano contattato. Gli autori sono riusciti a “tradurre” in questa scena tutta la sofferenza, la frustrazione e la rabbia contenute nella mail che i genitori mi avevano inviato: Michele non idoneo allo sport senza alcuna alternativa. Trovare risposte a richieste come queste è estremamente complicato come complicato è comunicare la non idoneità allo sport. Forse è una delle parti del mio lavoro che mi mette maggiormente in difficoltà. Ma è ancora più complicato per chi riceve questa notizia. La vita di quell’atleta viene stravolta in pochi secondi. Sogni, speranze e aspettative vengono spazzate via in un batter d’occhio. L’atleta entra in un tunnel senza uno spiraglio di luce. La notizia è difficile da accettare, per alcuni praticamente impossibile. Negli ultimi due anni, almeno tre giovani ex atleti hanno perso la vita mentre continuavano in autonomia e tra amici a praticare la loro amata attività sportiva. Consegnare la diagnosi e vietare di continuare non basta e spesso può generare reazioni pericolose. Sulla spinta di queste tragedie nasce a Treviso il nostro percorso psicologico-clinico-sportivo dedicato a giovani e meno giovani non più idonei allo sport agonistico. Prima ancora di pensare a quale attività fisico-sportiva possa essere compatibile con la nuova condizione clinica, l’obiettivo principale è quello di rendere consapevoli i pazienti ex-atleti. Consapevolezza, questo sostantivo, racchiude moltissimo del nostro lavoro: rendere il paziente cosciente dello stato di malattia e del rischio che quella patologia racchiude in sé! Sono circa 150 i ragazzi che attualmente stiamo seguendo, ai quali con tante difficoltà, cerchiamo di proporre una “seconda opportunità”. L’età varia dagli 8 ai 68 anni, sono affetti da patologie molto diverse fra loro, di solito hanno una storia breve e spesso sono geneticamente determinate. Sono quasi sempre asintomatici, rendendo molto più difficile l’accettazione della diagnosi. Psicologicamente, i più giovani esprimono rabbia, mentre gli adulti, avendo meno “tempo” davanti, faticano a reinventarsi e manifestano più frequentemente depressione. La cosa che rende molto difficile la gestione di questi “pazienti speciali” è che devono essere contenuti più che stimolati al movimento. Qui il gioco si fa molto duro. Quali opportunità possono essere offerte ai soggetti non idonei allo sport agonistico?
Sono quattro i punti che, a nostro avviso, provano a rispondere a questa domanda.
Il primo ci viene consegnato dalla storia di Francesca, 15 anni. Ama nuotare. Ogni anno si sottopone alla consueta valutazione medico sportiva. I vettori del suo elettrocardiogramma, eseguito regolarmente durante le valutazioni medico-sportive, negli ultimi anni hanno fatto registrare una perdita di voltaggio, accompagnati dalla comparsa di onde T negative nelle derivazioni anteriori. A questo si associavano aritmie ventricolari a riposo, ma soprattutto da sforzo, con aspetto polimorfo e in forma complessa. Il medico dello sport, non convinto, approfondisce il quadro e dopo un lungo percorso arriva alla diagnosi: grave cardiomiopatia ad impronta aritmica associata a moderata disfunzione bi-ventricolare. L’analisi genetica sentenzia: mutazione della Lamina. Nessun sintomo, capacità funzionale eccellente. Non deve stupire se nulla poteva far presagire una condizione clinica così drammatica. È quasi la regola. Ecco la prima opportunità: avere una diagnosi, meglio se presintomatica! Lo screening è efficace, lo sappiamo, ma non infallibile. Quindi non diamo per scontata questa importantissima possibilità.
Il secondo punto deriva dal provare ad aiutarli a far vedere un po’ di luce in fondo a quel tunnel, dove erano entrati quando gli è stata consegnata la non idoneità. Tutto ciò potrebbe avvenire ascoltando le loro esigenze e queste dipendono da una serie di fattori che non possono, a nostro avviso, essere trascurate: età, genere, sogni sportivi, sport praticato, supporto dei caregiver e, ancora una volta, il grado di consapevolezza. Ogni paziente una esigenza: unica cosa da non fare mai è generalizzare. È qui che si gioca parte del “secondo tempo”. La seconda opportunità sarà quindi quella di sentirsi presi in carico e non abbandonati al proprio destino.
Il terzo punto trae origine dalle esperienze di Filippo, un ragazzo di 13 anni appassionato di basket, e di Roberto, un uomo di 64 anni amante del kitesurf e della mountain bike. Filippo è affetto dalla sindrome del QT lungo tipo 1 con mutazione sul gene KCN1, in terapia con nadololo 1 mg/Kg. Roberto, invece, soffre di una grave cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva (CMIO) con aritmie ventricolari, anche in forma complessa; gradiente e aritmie sono controllate da metoprololo 25 milligrammi due volte al giorno. Queste due storie presentano età, patologie e, soprattutto, esigenze molto diverse. La sfida per chi gestisce pazienti con storie come queste è individuare l’intensità dello sforzo da proporre durante il loro allenamento quando questo risulta possibile (Figura 1), garantendo sempre massima sicurezza.
Il test cardiopolmonare (CPET), diventato molto popolare negli ultimi anni, sembra essere stato scoperto solo ora, nonostante venga utilizzato da almeno 50 anni nella valutazione funzionale degli atleti. In ambito cardiologico alcune delle finalità maggiormente studiate sono: definizione della prognosi e capacità funzionale del paziente, definizione, assieme ad altri parametri, del giusto timing per porre indicazione al trapianto cardiaco e la valutazione della risposta alla terapia. Da qualche anno i parametri ottenuti durante questa valutazione vengono proposti come unica modalità e senza distinzione, per individuare le frequenze cardiache e carichi allenanti nei pazienti affetti da varie cardiopatie. Le frequenze cardiache individuate derivano della soglia ventilatoria e dall’innesco del metabolismo anaerobico. Sulla carta dovrebbe essere così, ma solo monitorando e osservando i pazienti durante i loro allenamenti ci si accorge che questo può non essere sufficiente, anzi. Stiamo imparando, giorno dopo giorno, che seguire pedissequamente quanto indicato da questo test potrebbe individuare frequenze cardiache e intensità sottostimate o, peggio, troppo elevate. Le basse intensità di allenamento possono spingere i nostri giovani pazienti ad abbandonare il programma proposto e ritornare a praticare il loro sport tanto amato. Proporre carichi troppo elevati potrebbero invece far generare risposte emodinamiche anomale. In entrambi i casi si possono generare condizioni di serio pericolo. Quello che ci sembra necessario invece è usare una modalità poli-parametrica personalizzata: valori derivati dal CPET, frequenza cardiaca massima registrata all’ECG dinamico secondo Holter, monitorizzazione della risposta metabolica durante training, analisi della risposta della frequenza cardiaca durante sedute di allenamento monitorate nella nostra palestra e, per alcuni pazienti, l’analisi dei gradienti durante l’ecocardiogramma da sforzo (Figura 2).
Per esempio, monitorare Filippo in laboratorio durante la sua attività tecnica, nel suo caso il basket, ci ha permesso di ottenere frequenze cardiache massime più elevate e di conseguenza intensità di allenamento più divertenti. Diversa è la storia di Roberto e diverso è l’insegnamento che ci offre. La sua CMI, per l’elevato gradiente da sforzo registrato lo dovrebbe esclude aprioristicamente da qualsiasi attività fisica. Anche in questo caso, il CPET non era decisivo per individuare le intensità da proporre. È stato invece l’ecocardiogramma da sforzo a rivelarsi fondamentale per individuare il carico libero da gradiente patologico e, solo dopo aver condiviso i risultati con il paziente, è stata proposta una modalità di training da seguire rigorosamente. Ora il divertimento a suo dire è garantito. Nel caso di Roberto, non è stata trascurata anche la proposta di passare dalla bici muscolare a quella assistita. Questo gli permetterà di viversi tutte le bellezze del ciclismo e affrontare le salite con sforzo cardiaco controllato senza esporsi a rischio. Quindi, un’altra opportunità, forse quella determinante, è quella di individuare un’intensità di allenamento che permetta di allenarsi “divertendosi” ma sempre in sicurezza.
Il quarto punto arriva dalla storia di Fabio, 22 anni, calciatore. Una sera di ottobre di due anni fa, mentre si allenava lungo una via della sua città, crollò a terra. La prontezza di un passante lo mantenne in vita con il massaggio cardiaco fino all’arrivo del SUEM. L’approfondimento successivo sentenziò: arresto cardiaco, senza causa apparente. Ma qual è l’esigenza di Fabio? Non quella di tornare a giocare a calcio, no, a lui non interessa più. L’unica cosa che ci chiede è di poter rivivere la sensazione di libertà che correre gli regalava. Tutto qui. Qualche seduta di allenamento monitorato sotto la nostra supervisione gli ha permesso di trovare forza e coraggio per ripartire. La quarta opportunità potrebbe essere quella di riuscire a far tornare il sorriso a chi lo aveva momentaneamente smarrito. Concludendo, il nostro impegno deve essere rivolto a tutti coloro che, privati del loro sport, cercano una nuova strada, una nuova passione e una nuova speranza. Vogliamo offrire loro non solo una seconda opportunità, ma anche il sostegno necessario per affrontare e superare il trauma della non idoneità sportiva. Attraverso diagnosi accurate, ascolto delle esigenze individuali, supporto psicologico e percorsi di allenamento mirati, possiamo aiutare questi ex atleti a ritrovare la gioia di vivere, anche senza il loro amato sport. Il nostro obiettivo finale è che ogni paziente possa riscoprire il sorriso, la forza e la consapevolezza necessarie per affrontare il futuro con fiducia e serenità.