Riappropriarsi del senso pieno della Medicina per rendere più attrattive tutte le organizzazioni cardiologiche

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Riappropriarsi del senso pieno della Medicina per rendere più attrattive tutte le organizzazioni cardiologiche

Commento a “Quali caratteristiche possono rendere più attrattiva una Cardiologia per le nuove generazioni di Cardiologi? – Proposte per la Cardiologia del futuro” di Gianluigi Nicolosi (“Cardiologia negli Ospedali” N. 255, settembre – ottobre 2023)

Ho letto con interesse la stimolante riflessione di Gianluigi Nicolosi, su “Cardiologia negli Ospedali”. L’analisi riguarda un tema che preoccupa tutti noi, quali professionisti, docenti e cittadini. La cronica carenza di Cardiologi in Italia è un problema attuale, tanto più sentito per la prevalenza epidemiologica delle malattie cardiovascolari e la molteplicità e capillarità delle strutture cardiologiche che, dentro e fuori gli ospedali, curano le persone e sono chiamate, per vari motivi, a dare risposte a bisogni non sempre pertinenti ad una Cardiologia Specialistica. Come ribadito durante gli Stati Generali dell’ANMCO tenutisi a settembre 2023, nei prossimi anni mancheranno all’appello circa 800 specialisti in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, in un quadro generale allarmante che stima, per il 2025, un deficit di 16.700 medici specialisti su scala nazionale, nell’impossibilità di sostituire i 50.000 pensionati del quinquennio 2020- 2025. Le cause sono molteplici: in primis l’assenza di un piano nazionale che definisse, negli anni precedenti, una programmazione del numero di specialisti da formare coerente con i bisogni ed il mutare dell’epidemiologia e delle organizzazioni; in secondo luogo, quella che è una vera e propria “fuga dall’Italia”, per cui ogni anno quasi 1.000 medici si trasferiscono all’estero, per fuggire da turni logoranti e non gratificanti e stipendi inadeguati per le competenze e le responsabilità della professione. La conseguenza è una innegabile emergenza sanitaria, con strutture ospedaliere e territoriali costrette a ridurre il numero di prestazioni o a garantirle con tempi d’attesa eccessivi. La Cardiologia risente in modo particolare di questa carenza di organico, soprattutto in quelle realtà territoriali più periferiche che dovrebbero essere gli avamposti della salute ed il cui rafforzamento, non disgiunto da forti politiche e verifiche sull’appropriatezza, è uno degli obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza. Non direi che c’è un problema di “attrattività della disciplina”, perché la Cardiologia/Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rimane fra le prime 5 discipline selezionate dagli specializzandi (insieme a Chirurgia Plastica, Dermatologia, Oculistica e Neurologia). A fronte di 16.162 posti totali di formazione medica specialistica per l’anno accademico 2023-2024, quelli riservati alla Cardiologia sono stati 684, con tassi di saturazione altissimi (97%) già al primo scorrimento. Ci sono invece, a mio avviso, tre temi sui quali riflettere criticamente.
Il primo riguarda la congruità dei contratti rispetto al turnover e ai cambiamenti dell’epidemiologia e delle organizzazioni. Il secondo riguarda le ragioni “culturali” della scelta di essere Medico e Cardiologo. Ci sono, o meglio ci sono state, due ragioni fondamentali per operare questa scelta. La prima attiene all’umanità, alla solidarietà e alla relazionalità con il malato e la famiglia, la seconda attiene al metodo scientifico, all’uso ed al fascino delle tecnologie. Da qui, il rapido orientamento alle tecnologie diagnostiche e terapeutiche, al contesto dell’emergenza dove occorre “fare” tempestivamente, rispondendo ad una fetta importante ma parziale del bisogno. Il momento dell’attenzione umana, dell’approccio globale al malato, della capacità di interazione multidisciplinare, del rapporto con caregiver e famiglia, sono invece fondamentali nel setting della cardiologia ambulatoriale e della cronicità. Non è, quindi, solo un problema di “numeri” ma anche di cultura e di obiettivi di una scelta per un esercizio pieno della professione. È un problema di riconquistare il senso vero dell’essere medico e cardiologo, il rispetto per la globalità dei bisogni del malato, la continuità di cure e la collaborazione multidisciplinare come metodo e obiettivo concreto. Il terzo punto riguarda il sistema delle organizzazioni. Dovremmo interrogarci sull’opportunità di indispensabili aggregazioni fra strutture pensate come box rigidi ed autonomi, mentre dalle interazioni in rete e dipartimentali, compensazioni e condivisioni potrebbero derivare valori aggiunti per tutti: per i pazienti, per turni meno demotivanti, per aggregare casistiche ed esperienze e per dare maggiore continuità e sicurezza alla gestione delle cure. Io credo che queste considerazioni, contengano le cause di alcuni dei problemi con i quali ci confrontiamo, ingigantiti dalla carenza oggettiva di risorse umane. I concorsi per strutture spoke o ambulatoriali che vanno deserti o che vedono partecipare professionisti di discipline equipollenti ne sono una delle conseguenze. Nicolosi si interroga proprio sulla disomogeneità nel reclutamento di Cardiologi fra le grandi realtà ospedaliere ed i centri più periferici, laddove i numeri in alcune aree sono impietosi2. Il fascino della disciplina sembra esaurirsi nelle strutture delle grandi città, in cui tradizionalmente i giovani Cardiologi si formano. L’analisi di Nicolosi, alimentata dal racconto della sua autorevole esperienza personale, muove da una premessa condivisibile, che le grandi dimensioni rappresentino di fatto un “indicatore surrogato” di altre caratteristiche strutturali che rendono attrattivo un luogo di lavoro, e che sono più facilmente realizzabili nel grande centro: la dotazione tecnologica, la partecipazione a progetti di ricerca, la continuità col mondo accademico e la facilità nell’aggiornamento che ne deriva, i gruppi di lavoro multidisciplinari, solo per fare qualche esempio. Rappresentazioni di una componente dell’essere medico e cardiologo, con l’altra, quella “relazionale” e “globale”, ai margini. Fa bene Nicolosi a ricordare che anche nelle realtà periferiche possono essere esportati e perseguiti principi di rigore, attenzione umana, competenze tecnologiche avanzate. Ma mentre nel grande ospedale il circuito dei bisogni e cure, fatte salve le indispensabili interazioni, si chiude dentro la realtà “protettiva” della struttura cardiologica, in periferia, sul territorio, il buon esercizio della professione deve necessariamente coniugarsi con l’attitudine a interagire con altri professionisti, di varie strutture, anche fuori dal proprio contesto o struttura. È innegabile che i volumi di casistica generano esperienza e competenze, ma servono pure a questo le condivisioni in rete, i confronti multidisciplinari che sistemi informatici adeguati potrebbero ulteriormente implementare. Sicuramente noi cardiologi abbiamo una quota di responsabilità: abbiamo perseguito isole di autonomia e di iperspecializzazione, vissute fuori da contesti di forte integrazione e condivisione anche all’interno di aree omogenee geograficamente contenute, mentre le connessioni, le infrastrutture, i sistemi di archiviazione ed esportazione d’immagini, gli standard di qualità, sicurezza e rischio clinico mutavano e la spinta ad aggregarsi avrebbe dovuto conseguentemente incrementare. Anche l’Università deve riconoscere sue responsabilità: ha talvolta perso di vista gli obiettivi concreti di formazione di un buon medico al passo con le conoscenze, le aspettative ed i bisogni, con lo sviluppo di nuovi modelli organizzativi, generando una programmazione inadeguata, non integrata con il Ministero della Salute e insufficiente. Sapere, saper fare, saper essere e saper relazionarsi con attenzione ai temi della sostenibilità, queste sono a mio avviso le caratteristiche che definiscono un buon medico e che, insieme allo sviluppo di saperi critici, l’Università moderna deve suscitare e sviluppare. Invece viviamo fin dagli studi universitari la spinta alla compartimentazione e frammentazione dei saperi, generando l’illusione che il buon medico sia chi si occupa ad altissima specialità di un singolo problema o di una sua parte. Continuiamo ad insegnare la Medicina per malattie e non per problemi, siamo più attenti all’insegnamento che ai processi d’apprendimento. Quanti di noi educano allo sviluppo di sensibilità ed attitudine all’incontro e all’ascolto, al rigore metodologico per un approccio ragionato, alla capacità di visione globale dei problemi e della complessità? Per molti tutto ciò è nostalgia, filosofia e perdita di tempo; invece, a mio giudizio intercetta i temi fondamentali dell’essere Medico. Un’analisi pubblicata nel 2022 su Circulation3, ha riportato che sono proprio i giovani specializzandi e specialisti che lavorano nelle grandi strutture universitarie a soffrire in maniera significativa di burn-out e depressione, con un rischio sostanzialmente maggiore rispetto a quello della popolazione generale, a causa di un ambiente di lavoro frenetico e tossico, un carico di lavoro eccessivo, turni troppo lunghi con difficoltà nel conciliare vita lavorativa e vita personale, un sistema accademico non gratificante, poco elastico ed incapace di adattarsi ai cambiamenti generazionali, la cosiddetta “pressure to say yes”, che nel lungo termine depriva il soggetto di energie ed autostima. Le conseguenze sono di nocumento non solo per il singolo, ma anche per gli interi sistemi sanitari, per la relazione di proporzionalità diretta fra benessere degli operatori e qualità delle cure, tanto da rendere necessaria, nelle intenzioni degli autori, una call to action di ripensamento del sistema favorendo, tra le altre cose, anche la decostruzione del pregiudizio per cui l’attività clinica ha un valore maggiore quando praticata in centri di riferimento. Si è assistito ad una metamorfosi delle attività cardiologiche, con un incremento esponenziale del numero e della complessità delle procedure di emodinamica, elettrofisiologia ed interventistica strutturale, la cui acquisizione di competenze richiede una formazione lunga e specifica in strutture ad alto flusso. Difficilmente ad un Direttore di Scuola di Specializzazione lo specializzando chiede di consolidare le proprie conoscenze e competenze cliniche in contesti ambulatoriali o di degenza. Va un po’ meglio alla terapia intensiva. Svettano le richieste di formazione su tecnologie di imaging ed invasive. Non deve gratificarci solo la diagnostica avanzata multimodale, l’estinzione di un circuito elettrico, l’impianto di un dispositivo o la dilatazione della stenosi di una valvola o delle coronarie. Queste possibilità costituiscono un indubbio progresso della scienza a vantaggio dell’umanità e per questo vanno riconosciute e valorizzate. Devono però gratificarci anche il rapporto con il malato nel tempo e la globalità di una presa in carico che si alimenta della collaborazione fra professionisti di una stessa area disciplinare e di aree disciplinari diverse. Al lavoro insieme, in squadra, si deve essere educati e ci si deve allenare. C’è anche il tema delle risorse economiche ed opportunità di profitto e ci sono i temi dei contesti sociali ed economici di sviluppo della famiglia. C’è il tema della medicina difensiva. Temo che la soluzione adottata (decreto “Calabria”) per contrastare l’estrema criticità per carenza di professionisti, reclutando specializzandi in formazione fin dal III anno, accentuerà queste componenti critiche, spezzando i percorsi formativi, orientandoli ad aspetti contingenti (le guardie, i turni, l’abbattimento liste), parcellari e ipertecnologici, assecondando la logica delle prestazioni e non della presa in carico. Davvero una grande ipocrisia, per un percorso formativo che andrebbe meglio supportato e che in altri Paesi richiede fra 6 e 8 anni. Il rischio concreto è un Core Curriculum inadeguato, insufficiente, con ambiti di autonomia limitati per anni e forse a vita. Al netto di alcuni fenomeni su ampia scala difficilmente contrastabili, l’atteggiamento auspicabile non deve essere di rassegnazione e tanto meno di ipersemplificazione e proposta di soluzioni affrettate. Alcune modifiche strutturali potrebbero rivelarsi utili:

  • un’attenta politica di programmazione condivisa ed integrata, che consenta di adeguare il numero di professionisti formati ed assunti a quelli in pensionamento ed a quelli necessari ad organizzazioni che mutano;
  • favorire negli specializzandi la riscoperta del senso pieno dell’esser medico e cardiologo e del fascino dell’attività clinica critica;
  • ripensare il sistema delle Scuole di Specializzazione, implementando la rete formativa extra-universitaria, in modo che i medici in formazione possano trovare strutture adeguate, ad attività differenziate e volumi congrui, con mentori qualificati, consapevoli della propria missione formativa e generosi nel trasferimento di conoscenza, che concretizzino per lo specializzando momenti e prospettive di crescita, nella prospettiva di un percorso naturale di turnover rispettoso di bisogni e propensioni; l’università non deve abdicare ai ruoli di educazione e formazione, verificando costantemente gli standard di qualità formativa e ricercando il confronto costante sugli obiettivi di formazione;
  • rafforzare i presidi territoriali ed ospedalieri di emergenza-urgenza, in modo da garantire al Cardiologo l’esercizio della sua professione, e ridurre i casi di precettazione per coprire carenze di personale in altre aree disciplinari;
  • organizzare dei sistemi efficienti di collaborazione e condivisione d’informazioni ed immagini fra centri spoke e hub, fra territorio ed ospedale, in modo che anche i primi siano coinvolti attivamente nel percorso del paziente, rendendo così responsabilizzante e stimolante il ruolo dello specialista della struttura periferica;
  • realizzare un serio processo d’informatizzazione capillare nelle organizzazioni sanitarie per la condivisione di dati in sicurezza;
  • implementare forme strutturate di confronto su casistica all’interno di una rete e fra le reti di macroaree;
  • favorire un’organizzazione smart del lavoro, con turni declinati in modo più flessibile, anche accorpati, come è stato già suggerito negli USA3;
  • incentivare la possibilità che anche gli operatori delle strutture periferiche collaborino attivamente, secondo le loro possibilità, a progetti di ricerca e studi clinici;
  • incoraggiare l’acquisizione, da parte dei Direttori di Struttura, di competenze di project management, team building e leadership, in modo da favorire la creazione di un ambiente di lavoro positivo, sostenibile, attrattivo, gratificante e generoso nel trasferimento di conoscenze e competenze3;
  • adeguare le retribuzioni del personale sanitario, anche incrementando gli “scatti di carriera/anzianità” che all’estero hanno cadenza annuale/biennale mentre in Italia ancora cadenza quinquennale; ciò colmerebbe disomogeneità e diseguaglianza, rendendo il SSN ancora competitivo;
  • ripensare il principio dell’esclusività nel rapporto con il SSN, attualmente molto svantaggioso rispetto all’attività privata extramoenia;
  • iniziare un percorso strutturato con il Legislatore verso la depenalizzazione dell’errore medico e la cancellazione della responsabilità penale; quest’ultimo aspetto è in vigore solo in altri due Paesi oltre all’Italia (Polonia e Messico).

Servono investimenti coraggiosi, direzioni strategiche aziendali capaci e direttori di struttura che sappiano sviluppare innovazioni tecnologiche e modelli organizzativi, inclini ad accogliere bisogni delocalizzati, alimentando l’eterogeneità di casistica, che sappiano sviluppare relazioni costruttive con varie discipline e con la Medicina Generale, che promuovano ricerca collaborativa, rendendo una Cardiologia di piccole dimensioni un posto attrattivo, un contesto non isolato a cui il giovane Cardiologo possa guardare con interesse considerandolo adeguato alle sue aspirazioni in termini di crescita e gratificazione personale e professionale. Serve un impegno inclusivo ed ampio dell’università. Serve riappropriarsi del senso pieno della medicina e della risposta ai bisogni. Serve valorizzare la cultura ed i saperi critici. Serve rendere parole come prossimità, centralità del malato, continuità ospedale-territorio, lavoro in team, condivisione collegiale, attenzione agli esiti, non slogan demagogici ed opportunistici ma concreti obiettivi formativi e modalità di approccio e risposta ai problemi. In questo modo i malati saranno veramente al Centro, la formazione e la didattica saranno finalizzate a professionisti colti, capaci, dotati di spirito critico, che abbiano prospettive di lavoro e si sentano gratificati nei vari contesti. In questo modo a medicina si riapproprierà del suo valore pieno e la ricerca e la cultura saranno gli strumenti per la costruzione di organizzazioni qualificate e di una società migliore. Questa riflessione è anche il frutto di un confronto critico e franco con Maddalena Rossi, Maria Perotto, Eva Del Mestre, Valentina Allegro, Enrico Fabris, Marco Merlo, Aldostefano Porcari ed Alberto Guarnaccia, che ringrazio.


Bibliografia

  1. Nicolosi, G. L. Quali caratteristiche possono rendere più attrattiva una Cardiologia per le nuove generazioni di Cardiologi? “Cardiologia negli Ospedali” N. 255 (settembre – ottobre 2023).
  2. cittadinanzattiva.it/comunicati/15491-desertificazionesanitaria-ed-aree-interne-presentatalanalisi-di-cittadinanzattiva-nellambitodel-progetto-ahead.html
  3. Bradley, E. A. et al. Physician Wellness in Academic Cardiovascular Medicine: A Scientific Statement From the American Heart Association. Circulation 146, (2022).

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