L’infarto da stress

HomeForum

L’infarto da stress

La parola inglese stress, traducibile in italiano con sforzo, dopo gli esperimenti medici che l’hanno resa famosa e poi utilizzata per qualsiasi forma di provocazione al nostro equilibrio psico-fisico, ha assunto proprio questo nuovo significato invasivo sia per gli animali che per gli umani, e per i politici. Lo si deve precisamente ad Hans Selye, il famoso ricercatore di origini ungheresi, ma nato a Vienna nel 1907 da madre austriaca, il quale dopo la laurea in medicina emigrò a Montreal, dove realizzò le sue originali ricerche sugli animali. Erano gli anni ‘30 del secolo scorso quando dalla canadese McGill University fece conoscere al mondo la “sindrome generale di adattamento”, ottenuta stimolando in vario modo i piccoli animali di laboratorio. Egli, utilizzando vari stressor, ossia provocazioni fisiche, farmacologiche e anche psicologiche, osservò che spesso queste erano capaci di determinare reazioni neurologiche, psichiche e delle ghiandole endocrine, cui seguivano lesioni in vari organi, compreso il cuore. Era la dimostrazione che l’organismo animale e presumibilmente anche quello umano, potevano sviluppare malattie conseguenti a certe influenze sulla loro sfera neuro-psichica, e quindi non solo a causa dei vari agenti patogeni e delle involuzioni dovute all’età e alla genetica, allora dominanti. Una vera e propria rivoluzione in un periodo nel quale prevaleva il positivismo e la ricerca di tangibili cause patogene e di altrettanto precisi effetti morbosi.
Non che in quella prima metà del ‘900 mancassero le indicazioni su certe imprecisate reazioni del nostro organismo quali, volendo rimanere nella sfera delle malattie cardiovascolari, la morte improvvisa o un infarto dopo un evento emotivo, da cui le espressioni popolari di “crepacuore” o di “non gli ha retto il cuore”, che facevano intuire anche al profano meccanismi dinamici che la scienza non aveva ancora precisato. E nonostante che la storia fin dall’antichità avesse segnalato molti casi di eventi francamente collegati alle reazioni emotive, quali la morte di Fidippide subito dopo aver annunciato la vittoria di Maratona o quella di Attila durante un amplesso amoroso. Va ricordato che allora erano anche frequenti le congiure e gli avvelenamenti, che forse sviavano l’attenzione sulle cause naturali. Ma, ritornando alla nostra attualità, appare strano che ciò sia avvenuto anche ad onta del meccanismo ben conosciuto delle variazioni in più o in meno della pressione arteriosa, ritenuto senza dubbio già allora a restringimenti o dilatazioni delle piccole arterie di tutto il corpo. Le scoperte di Selye, che ci lasciò nel 1982, non furono subito percepite nel loro recondito significato perché in quel periodo, sempre per rimanere nell’ambito del cuore e dei vasi, erano ben radicati i concetti di infezioni delle valvole e del miocardio che generavano evidenti deformazioni e quelli dell’arteriosclerosi che “incrostavano” le nostre arterie fino a chiuderle, o dell’aorta che si sfiancava provocando l’aneurisma passibile di rottura. Solo alcuni clinici illuminati, come il nostro Condorelli, nei quali l’osservazione del malato o dell’autopsia non poteva prescindere dalla fantasia e dalla cultura in altri campi, avevano segnalato l’importanza dei fattori legati alla dinamica e alla sfera psico-emotiva. Mancava però la prova provata, il santommaso della evidenza scientifica, che arrivò dal nostro Attilio Maseri negli anni ‘70 dimostrando che le coronarie non solo si muovevano e non erano tubi idraulici soggette solo al “calcare” ostruttivo, ma potevano chiudersi per un semplice spasmo. Il dado era tratto e non ci furono più dubbi per capire le molte forme di angina e di “crepacuore”. Pochi anni dopo queste dimostrazioni della scuola pisana alcuni cardiologi giapponesi osservarono che certe persone anziane, quasi sempre donne, venivano colte da un arresto cardiaco, motivato spesso da uno stress emotivo. Una perdita di conoscenza che poteva risolversi da sé ma anche concludersi con l’exitus. Aveva alcune caratteristiche dell’infarto, ma la coronarografia non mostrava l’occlusione coronarica, mentre l’ecocardiogramma indicava una strana contrazione ventricolare a forma di anfora, che impediva al cuore la normale attività, da cui la possibilità di resuscitazione se l’anomalia si risolveva subito, e in tali casi senza lasciare le caratteristiche impronte infartuali nell’elettrocardiogramma. Le pazienti peraltro non erano quasi mai coronaropatiche o solo in forma lieve e ciò che collegava quella singolare deformazione del cuore allo stress era probabilmente la conseguenza di un’anormale contrattilità delle piccole arterie coronariche, il cosiddetto microcircolo. Nel mio giovanile peregrinare onde imparare il mestiere di cardiologo ebbi l’occasione di conoscere personalmente Hans Selye, durante un congresso sull’arteriosclerosi a Città del Messico. Era la fine degli anni ‘50 quando incrociai lo scienziato subito dopo la sua relazione sulle lesioni cardiache negli animali a causa degli stress da lui provocati. Gli chiesi se quelle alterazioni si potevano verificare anche nell’uomo a conseguenza dei tanti stress che subiva. I suoi occhi a spillo, espressivi ma non invadenti, anzi quasi malinconici, colsero subito che ero italiano e rispose nella mia lingua, che aveva imparato durante un suo lontano soggiorno a Roma. Disse che quanto ipotizzavo era molto probabile, ma che non c’erano ancora le dimostrazioni precise. In seguito ho pensato spesso a quell’incontro e alla considerazione che egli espresse a un giornalista dichiarando che odiava i congressi perché facevano perdere tempo alla ricerca scientifica. Era una critica severa, ma che aveva certamente qualche buona ragione se si considera l’eccesso di convegni in molti paesi e i tempi lunghi della ricerca per raggiungere ciò che oggi sappiamo, direi anche per dimostrare quanto l’intuizione di Selye aveva preannunciato. Infatti, trascorsero 20 anni prima di arrivare a Maseri e alla Tako-Tsubo, e ulteriori 20 per sapere che lo stress mentale eccita una zona del lobo frontale in pazienti coronaropatici, osservando che quanto maggiore era la reazione cerebrale tanto più frequente la comparsa di importanti eventi cardiovascolari (Kasra Mozzami e coll. Circulation, agosto 2020). Più ancora e del tutto recente è lo studio di Viola Vaccarino e coll. (JAMA 2021) sullo stress mentale attuato con precisi stimoli su 918 coronaropatici in fase di stabilizzazione della malattia, messo a confronto con lo stress fisico dell’abituale prova da sforzo. Tale stimolazione psicologica risultò positiva per la comparsa di ischemia nel 16% dei casi, contro il 31% di quella ergometrica e del 10% di entrambe nello stesso soggetto, ma il risultato più sorprendente dei ricercatori georgiani è che a distanza di 5 anni, mentre i positivi al normale test da sforzo non presentarono alcun rapporto con le complicanze della loro cardiopatia, quelli positivi al test mentale invece ebbero il 17% di infarto o di mortalità e il 35% di insufficienza cardiaca, nonché rischi peggiori se i due test erano risultati positivi nello stesso paziente. A questa differente evoluzione del rischio nel follow up dei coronaropatici, valutati con i due diversi test provocatori, i ricercatori dell’Università Emory di Atlanta hanno cercato di dare una interpretazione fisiopatologica. La quale poteva essere prospettata rilevando che la positività al solo test mentale, a differenza di quello da sforzo, non aveva alcun rapporto con il grado di coronaropatia valutato angiograficamente, suggerendo quindi una probabile compromissione non dei grandi vasi coronarici, ma del microcircolo coronarico, simile a quanto si è ipotizzato per la miocardiopatia Tako- Tsubo, dove per l’appunto la componente emotiva e la correlazione cervello/cuore appaiono molto suggestive. Non c’è dubbio quindi che la ricerca scientifica sull’infarto miocardico, che all’inizio della sua valutazione con le moderne tecniche diagnostiche appariva caratterizzato da riscontri e considerazioni prevalentemente anatomici, dai quali sono derivati i farmaci trombolitici, i bypass, gli stent e i trapianti, oggi quella stessa ricerca ha raggiunto nuove dimostrazioni che si collegano tangibilmente con il cervello e che prospettano nuovi rimedi. Ciò che all’inizio sembrava indefinibile e quasi filosofico, ossia la psiche, l’emotività, lo stress, oggi è una realtà medica e ha un chiaro rapporto con la terapia e con l’epidemiologia. Mentre appare altrettanto vero che lo studio scientifico continuativo allarga il nostro orizzonte di conoscenze perché, come diceva il filosofo francese Bernardo di Chartres, noi ancorché nani (come i tanti no-vax) poggiamo sulle spalle dei giganti. I quali fortunatamente riescono a prospettarci anche la trascendenza, quale avvertì Albert Einstein dopo aver ascoltato la musica dei grandi.

Autore