La processione

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La processione

ERICA CASSANO
Sono nata a Maratea (PZ), mi sono laureata in Filologia Moderna a Napoli e ora, dopo un master in narrazione alla Scuola Holden, vivo a Torino. Leggo, faccio foto e scrivo.

“Sta arrivando la processione!”.
Il signor Leonardo schiuse appena l’occhio destro e subito lo strizzò di nuovo, ferito dal bianco della stanza che rifletteva il sole di aprile.
“E falla passare”, rispose, facendo tintinnare le monete che teneva nella giacca del pigiama. Con gli occhi chiusi, strinse il pugno intorno al gruzzoletto metallico e lo riaprì. Ripeté il gesto più volte, la prima immaginò di star pagando il panettiere, quella dopo il macellaio e, infine, il giornalaio. Si ripassò nella testa, una per una, le conversazioni che avrebbe avuto con ciascuno di loro quella mattina, se una settimana prima non avesse perso i sensi sul marciapiede davanti casa. Il suo cuore sfarfallante gli aveva fatto un brutto scherzo. Avrebbe giurato che si era persino fermato anche se la dottoressa Spagnoli, che era il primario di cardiologia, gli aveva assicurato più volte che non era così. “Se fosse vero” aveva spiegato, mettendosi a ridere “probabilmente ci sarebbe voluta l’intercessione di San Francesco per farci questa chiacchierata”. Leonardo non s’era divertito. Dopo giorni di ricovero, il suono delle monete era l’unica cosa che lo teneva ancorato alla realtà. Dalla voce, quella che aveva parlato doveva essere l’infermiera bionda, Carlotta. Era una donna giovane e simpatica, lo aiutava a fare le videochiamate con sua figlia.
Si pentì di essere stato così brusco. “Che dite, gli mandiamo un bacio, a San Francesco? Vi metto sulla sedia a rotelle e andiamo di sotto”. Leonardo stavolta pensò a come rispondere per non sembrare troppo antipatico. “Mi fa male il petto se sto seduto”, disse poi, aprendo gli occhi. Carlotta sbuffò, ma sorridendo, mentre tirava un lembo del lenzuolo verso di sé per infilarci sotto la padella e lo sistemava con forza sotto al materasso, lisciando la stoffa sopra le gambe di Leonardo.
“Siete voi che non vi ci volete mettere, seduto. Il cuore in questo momento sta bene e andrà sempre meglio. E poi a vostra figlia glielo avevate promesso, ieri pomeriggio, che ci provavate”.
Il signor Leonardo si tirò su appena, puntellandosi sul braccio. Fece un gesto con la mano che voleva dire lascia perdere. E l’infermiera lasciò perdere, lo salutò e sparì nel corridoio silenzioso.
Quando, pochi minuti dopo, lui si accorse di avere la padella sporca, suonò il pulsante di chiamata vicino al letto.
Nessuno.
Riprovò.
Nessuno.

Leonardo rimase a guardare fuori dalla porta per un po’. In corridoio non c’era il solito via vai. La tradizione voleva che il giorno di San Francesco da Paola tutti, medici, infermieri e pazienti, uscissero fuori, nello spiazzo davanti all’ospedale, a guardare la processione arrivare e fermarsi. La statua del santo, come ogni anno, avrebbe fatto tappa nella cappelletta dell’ospedale, al primo piano, per salutare quella del Sacro Cuore di Gesù, con una breve benedizione del Vescovo.
Erano le dieci meno dieci. Leonardo distolse lo sguardo dall’orologio, lo posò sulla finestra chiusa.
Per quanto tempo sarebbe rimasto là così, affogato nei suoi escrementi?

Poi la speranza: il rumore delle ruote di gomma di un carrello portapacchi che rotolavano sul pavimento lucido del corridoio. Un garzone lo spingeva, in una tuta blu, zuppa di sudore.
“Ragazzo!” lo chiamò Leonardo.
Quello rallentò.
“Non sono un infermiere” disse, rimettendo il carrello in posizione di marcia.
“Non mi interessa”, rispose il signor Leonardo. Fece un gesto con la mano che voleva dire vieni qui, facendo tintinnare le monete nella giacca del pigiama.
Il ragazzo allora si fermò, lasciò in equilibrio davanti a lui il carrello su cui erano ammonticchiate due casse di acqua, avvolte nella plastica blu, entrò nella stanza.
“Devi fare una cosa per me”.

Intanto, davanti all’ingresso dell’ospedale si erano schierati infermieri in scrubs verdi, medici in camici bianchi, pazienti in sedie a rotelle e persino qualcuno in barella. La dottoressa Spagnoli faceva avanti e indietro tra la folla. Come Mosè tra le acque aprì le schiere in due ali, dando ordine di spostare le sedie a rotelle da un lato, le persone appoggiate alle stampelle dall’altro e quelli attaccati alle flebo il più vicino possibile all’ingresso dell’ospedale. San Francesco non avrebbe potuto mica miracolare tutti, pensava, mentre controllava che i pazienti stessero abbastanza bene da aspettare il santo. Quando sentì il suono della banda che finalmente si avvicinava si andò a posizionare in prima fila, vicino alla signora Felicia, che sembrava una mosca, con quegli occhialoni scuri che le coprivano per metà il volto.
“Quello che suona l’oboe è mio nipote” disse la signora, afferrando il braccio della dottoressa Spagnoli. Non era vero: suo nipote era relegato a suonare il triangolo, in fondo alla banda. Ma la signora Felicia, che era appena stata operata di cataratta, non poteva saperlo e la dottoressa Spagnoli glielo lasciò credere.

La processione arrivò. I quattro che portavano in spalla la statua del santo la posarono a terra, tra le due schiere che si erano formate all’ingresso dell’ospedale. Restarono fermi nelle loro camicie sudate, mentre la mitra dorata del Vescovo girava tra la gente spargendo l’incenso. L’odore andò a sovrapporsi a quello dei medicinali e dei disinfettanti.
Uno dei portantini gridò “Evviva San Francesco!”, “Evviva San Francesco!”, urlarono tutti gli altri, in risposta.

Dopo che ebbe finito di spargere l’incenso, il Vescovo si diresse verso la cappella dell’Ospedale. Ci entrò, seguito dai quattro che portavano la statua, sentendo sulle palpebre il caldo del sole che penetrava dalla finestra tonda sopra l’altare. Finalmente c’era silenzio. Era sempre un momento emozionante, l’incontro tra San Francesco e il Sacro Cuore. Una volta, quando era ancora chierichetto, si era intrufolato nella cappella e da allora aveva desiderato diventare Vescovo pure lui, per il solo piacere di poter celebrare quel rito. Pensava a queste cose, quando uno dei portantini si allarmò: “Dove sta la statua?”.
“L’hanno già spostata?” chiese un altro.
Il Vescovo aprì gli occhi e si trovò davanti le quattro facce sudate che lo fissavano con le bocche aperte. In mezzo a loro, svettava la testa calva di San Francesco, rivolto verso l’altare vuoto, dov’era rimasto solo il basamento della statua del Sacro Cuore. Sul marmo bianco, una rosa rossa, secca. Il Vescovo fece in tempo a unire le mani e a guardare in alto, verso il cerchio di luce della finestra, prima di cadere, lungo lungo, ai piedi di San Francesco.

Bisognava trovare a tutti i costi la statua del Sacro Cuore. Certo, non era grande quanto quella di San Francesco – non superava il metro in altezza – ma era più preziosa. Rappresentava un Gesù che si apre la veste bianca sul petto e lascia scoperto un cuore fatto d’oro massiccio, trafitto da uno spadino d’argento. La dottoressa Spagnoli prese il comando della spedizione: organizzò in pochi minuti diversi gruppi di ricerca, uno per ogni reparto. Da silenzioso che era, l’ospedale divenne un rumoroso formicaio di sedie a rotelle, barelle e personale medico. I quattro portantini tornarono nell’atrio, tenendo saldo in spalla San Francesco, nel caso in cui il ladro fosse ancora tra loro, pronto al furto anche di quella statua. Una delle squadre, composta da tirocinanti in chirurgia generale, fu inviata sul tetto, a controllare che il Sacro Cuore non stesse per caso tentando un’improvvisa ascesa al cielo. La signora Felicia, a capo di altre sei mosche in carrozzina, tutti pazienti resi provvisoriamente ciechi per qualche intervento oftalmico, sosteneva di aver visto passare la statua, issata sul portapacchi del garzone dell’acqua. Nessuno le credette, naturalmente, ma lei ordinò comunque alla sua squadra di perlustrare con attenzione la zona dei distributori automatici, che diventò in breve un autoscontro per sedie a rotelle. Ovunque si aggiravano falangi di fedeli, fino a poco prima seguaci del corteo. Molti di loro tenevano in testa le cinte di candele, che prima servivano ad abbellire la processione, ma che ora sembravano ornamenti di guerra: era iniziata una vera e propria crociata per la riconquista del Sacro Cuore. Il Vescovo, attaccato a una flebo di soluzione salina in pronto soccorso, chiese di partecipare alla ricerca, sosteneva di avere con la statua un legame speciale, lui sì che l’avrebbe trovata subito. La dottoressa Spagnoli acconsentì: in fondo, quello del Vescovo, era stato solo un calo di pressione. La Spagnoli in persona si mise a spingere la barella, e insieme fecero su e giù con l’ascensore, ficcarono il naso nei reparti di medicina interna, nefrologia e persino in terapia intensiva, dove per fortuna non c’erano pazienti. Niente, della statua non c’era traccia. Quando arrivarono al reparto di cardiologia, incrociarono la squadra di ricerca formata da infermiere e infermieri, capitanata da Carlotta. Erano sconfortati, sedevano a terra, lungo entrambi i lati del corridoio. Due di loro pescavano da un pacchetto di patatine, mentre Carlotta sorseggiava affranta una bibita in lattina con una cannuccia. “Avete finito di pattugliare qui?” chiese la dottoressa Spagnoli. Assaporò la parola pattugliare. Finalmente poteva mettere a frutto anni di passione per le serie poliziesche. Carlotta scosse la testa, ma, prima che potesse rispondere, il Vescovo si mise improvvisamente a sedere, indicò la fine del corridoio e ricadde svenuto all’indietro. La dottoressa Spagnoli gli sentì il cuore e, dopo aver constatato che il battito era regolare nonostante l’illuminazione divina, lo affidò a una delle infermiere. Di corsa si avviò verso il fondo del corridoio, seguita da Carlotta. Entrarono insieme nella stanza del signor Leonardo. Il Sacro Cuore era lì, in equilibrio sulla sedia davanti al letto. Leonardo gli stava raccontando del suo cuore sfarfallante, anche lui a volte se lo sentiva fuori dal petto, trafitto. Aggiunse poi che odiava tutta la questione della processione, ma lo rassicurava: “Non ho nulla contro di te, eh, ci mancherebbe. Tu sei pure simpatico, è San Francesco che proprio non posso sopportare”. Per tutta risposta la statua continuava a indicarsi il petto in cui era incastonato il cuore. Carlotta andò verso Leonardo, prendendo a rimproverarlo: “Signor Leonardo ma cosa vi è venuto in testa, qua sono impazziti tutti…”
Oh ecco, finalmente. Sapevo che avrebbe funzionato”, la interruppe lui, ridendo, mentre faceva tintinnare le monete nella tasca del pigiama.
“C’è o no qualcuno che può aiutarmi con questa dannata padella?”.

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