GABRIELE VIALE
Gabriele Viale nasce a Torino. Frequenta il corso triennale della Scuola Holden.
Simula i pedali, per questo alza e abbassa i piedi col tallone piantato giù. Accelerare e rallentare. Però si stufa in fretta e agita le sue gambette muovendole avanti e indietro poi ferma la destra, la solleva distendendola nella noia che permea la sala d’attesa. Inizia a contare, vuole sapere quanto riuscirà a resistere. Gli occhi convergono sulla punta della scarpa. Contrae la fronte, schiaccia i denti, stringe il bracciolo della sedia e infine, dispiaciuta, piega la gamba appoggiando il piede a terra. 53 secondi.
Greta è sola, aspetta che il papà finisca di fare le visite del pomeriggio per tornare a casa.
Sulla sedia a fianco a lei, a farle una compagnia muta, stanno una sopra l’altra tre riviste di automobili che spesso tiene con sé, da quando i motori sono diventati una passione imprescindibile. Ne prende una, la porta al naso aspirando l’odore d’inchiostro e carta plastificata. Sfogliandola viene catturata dallo sfrecciare delle auto su strade vuote di mare, di montagna, di città. Fugge immobile osservando la Ford Kuga e l’Alfa Romeo Milano quando dei passi la gettano nuovamente nella sala d’attesa. Si volta e scopre una donna e un ragazzo parlottare a bassa voce tra loro per poi sedersi di fronte a lei. Sono madre e figlio, Greta lo capisce al volo. La donna ha posato sulle cosce una cartellina gialla e, appoggiata sopra, una borsa che pare un gatto in cerca di riposo. Il ragazzo porta occhiali dalle lenti tonde, il suo viso ricorda a Greta i fogli stropicciati e appallottolati.
“Appena termina la visita in corso sarà il dottore a uscire e chiamarvi. Siete gli ultimi della giornata” afferma sciabattando l’infermiera, lancia un occhiolino lesto a Greta che rilancia con una linguaccia, e se ne va. La donna annuisce, il ragazzo tira fuori il cellulare facendo su e giù col pollice ma lo schermo si paralizza un attimo, si fa buio e viene nascosto nella tasca dei bermuda.
“Come ti chiami?” chiede Greta inarcando la schiena.
“Andrea” risponde incerto il ragazzo. “Fate in fretta così posso andare via” sentenzia Greta.
Sulla bocca di Andrea s’accende un sorriso rapido, quasi una scintilla. Greta soddisfatta torna alla sua velocità stampata, o meglio, finge di farlo. Sbircia i due tenendo la testa bassa sulla rivista. Riesce a vedere Andrea portarsi le dita alla bocca, le inclina a seconda del punto interessato e coi denti pizzica e stacca le pellicine attorno alle unghie, con esperienza. Lei ormai non lo fa più, sua mamma le ha insegnato che è una cosa da piccoli e aggiungeva uno schiaffetto stizzito sulla mano quando la vedeva disobbedire.
Per strappare il silenzio, che sembra incartare tutti, Greta comincia a sbattere i piedi tra loro seguendo il ritmo della canzone ripassata in mattinata a scuola, durante musica. L’assolo non attira le attenzioni desiderate quindi si alza in piedi, si stiracchia e fa qualche passo senza meta. Porta la testa all’indietro: gioca a socchiudere piano gli occhi creando una barriera di ciglia per spegnere i neon sul soffitto. Fa durare il buio qualche istante, quando lo apre e inclina la testa trova gli sguardi su di lei.
“Aspetti qui da molto?” domanda la donna.
Greta fa spallucce.
L’attenzione di Andrea scivola sulla rivista, Greta se ne accorge e chiede: “Sai guidare?”
La donna scuote la testa al posto del figlio dandogli qualche schiaffetto sul ginocchio.
“Io faccio la patente subito appena posso! Tu perché sei qui?” incalza ancora Greta.
“E tu invece?” risponde il ragazzo.
Greta corruccia la bocca, poi spiega: “Aspetto papà.”
“È entrato da tanto?” chiede la donna.
“Sì anzi no. Papà è il dottore.”
“E lo aspetti qui? Come mai?”
“La mia babysitter ha avuto un imprevisto e mamma mi ha dovuto portare qui perché aveva un convegno, uno di quelli importanti… allora tu cosa devi fare?”
“Un controllo” risponde Andrea grattando l’elastico della cartellina.
“Cosa ti deve controllare papà?” Andrea deglutisce la tensione, il suo pomo d’Adamo si alza e il tono di voce cala un po’.
“Mi ha operato due anni e mezzo fa. Ogni tanto devo fare delle visite.”
Greta s’offende spesso quando il papà torna tardi, stanco e si abbandona sul divano a faccia in giù. Per salutarlo deve scuoterlo e saltargli sopra. Pure a tavola i suoi genitori parlano dei pazienti, di patologie, operazioni di cui Greta ignora tutto ma i cui nomi le trasmettono una sensazione appuntita.
“Cosa avevi?” indaga Greta avvicinandosi.
“È complicato…”
“A me sembra che stai bene!” lo interrompe lei.
Andrea si volta verso la madre, una richiesta di consenso istintiva. Sbottona i primi tre bottoni della camicia a partire dal collo rivelando una cicatrice verticale, dritta come una strada dritta. Una sottile linea rossastra scavata nella pelle in mezzo al petto, a dividerlo in due metà. Greta affascinata allunga il braccio, sfiora col polpastrello dell’indice la ferita liscia. Il contatto è brevissimo. Andrea si ritrae, punto dal solletico o dall’imbarazzo.
“Mi ha sostituito una valvola cardiaca” confessa chiudendosi la camicia.
E Greta pensa immediatamente al metallo, ai rubinetti, ai termosifoni: tutte cose distanti dal cuore. I pensieri vengono tagliati all’istante dal cigolio affilato della porta e dai saluti del suo papà, saldati da una stretta di mano, col paziente che esce a passi lenti. Andrea e la madre scattano in piedi per una reazione collaudata. Il papà di Greta si avvicina facendo cenno di entrare. Greta strizza la rivista tra le mani e rimane impalata vedendoli sparire tutti dietro la porta dello studio, a dirsi segreti.
Si abbandona sulla sedia, stufa dell’arrivo di un’altra attesa. La solitudine l’ha acchiappata ancora, vorrebbe qualcosa per distrarsi, per accorciare il tempo, tipo contare le piastrelle ma il linoleum a terra copre tutto allo stesso modo. Riapre la rivista, la sfoglia distrattamente pagina per pagina, poi prende l’altra ma anche questa sembra aver sciupato il suo potere d’attrazione: le macchine perdono velocità, rallentano sempre più, fino a esser ferme sulle pagine. Consuma tutte e tre le riviste senza fantasia. Non fa che pensare alle persone con quei tagli, quelle incisioni. Sono persone con qualcosa di prezioso e i medici cercano dentro di loro una fortuna; se lo ripete tanto nei pensieri da sentire il bisogno di muoversi. Allora porta il sedere sul bordo della sedia, solleva la gamba sinistra, la distende dritta come la cicatrice di Andrea. Aggrotta la fronte, abbassa le sopracciglia per lo sforzo e afferra di nuovo il bracciolo con la mano sudaticcia.
La gamba magrolina inizia a tremarle, ad abbassarsi, tiene duro. Tiene duro fino a non poterne più.
67 secondi, è record.
Ma è un entusiasmo cagionevole perché Greta continua a rimuginare, i ragionamenti si allineano come le sedie vuote di fronte a sé. Scopre un’idea nuova tastandosi il petto, sul lato sinistro. Il palmo della mano disteso ad ascoltare il battito, vorrebbe sapere cosa dice e se quello di Andrea parla in modo diverso: magari biascica o ha la parlantina.
La porta dello studio viene spalancata, Andrea esce per primo, la mano della madre poggiata sulla spalla. Lo sguardo di Greta corre verso quello di Andrea che sembra avere gli occhi sudati dentro un’espressione incrinata e frettolosa da cui sfugge un sorriso accennato. Greta si mette in piedi ma Andrea e la madre hanno già raggiunto l’uscita, ammutoliti. Nessun saluto, sembrano scappare.
Confusa dirotta lo sguardo alla sua destra, verso il papà fermo, quasi incastrato nel suo camice. Greta lo raggiunge, lo abbraccia provando ad arrampicarsi su di lui e viene sollevata; suo papà è una gru alta e forte. Ora condividono l’altezza, lei gli circonda il collo, diventa una collana.
“Hai salvato Andrea!”
Il papà le dà un bacio stanco sulla fronte e rimanda la risposta di qualche secondo, come se la dovesse cercare.
“Ho visto la cicatrice. Voglio anche io una cicatrice come lui, papà!”
Il papà si concede un sospiro rapido.
“Dai, è stata una giornata stancante per tutti. Adesso andiamo a casa” dice chinandosi per farla scendere, e Greta intuisce che i segreti detti dietro la porta bianca, forse, non erano buoni.