Diario di un Cardiologo. Una guardia di notte…(2)

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Diario di un Cardiologo. Una guardia di notte…(2)

I medici sono pur sempre degli esseri umani

Saluto mia moglie prima di uscire di casa. Ha la pancia come una mongolfiera e mancano ancora due settimane alla data presunta del parto. La gravidanza è andata benissimo, non c’è stato nessun problema, al contrario della prima, e tutto sembra tranquillo. Prendo la Vespa per andare in ospedale e mi godo il tepore della serata di metà settembre. La guardia fila via liscia come l’olio nelle prime due ore; poche consulenze in medicina d’urgenza e l’unità coronarica è assolutamente tranquilla. Alle dieci di sera la tregua è definitivamente rotta; arriva un grosso infarto e si scatena la baraonda. Avverto il reperibile che mi bestemmia al telefono, allerto l’infermiera dell’emodinamica e poi entro in sala. In quegli anni a Trieste praticavamo la trombolisi intracoronarica. Si iniettava la streptochinasi, un farmaco che scioglie i trombi, che si formano nelle coronarie e occludono il flusso sanguigno, provocando l’infarto. Naturalmente l’infusione andava fatta attraverso un catetere, posizionato sotto la guida dei raggi X all’imbocco dell’arteria responsabile della necrosi di tessuto miocardico. Di tutto il personale medico della Cardiologia eravamo solo in tre ad essere in grado di eseguire questa manovra: il primario, l’aiuto responsabile della sala (cioè io) e il mio assistente. Risultato scontato; eravamo reperibili un giorno ogni tre (non vi racconto i problemi di quando si dovevano decidere le ferie) ma c’era un altro bonus che avevamo vinto noi due medici dell’emodinamica. Oltre alle reperibilità ci toccavano le guardie generali di Cardiologia nello stesso numero degli altri colleghi. Corrispettivo economico per questo sforzo: zero lire. Lo facevamo perché eravamo giovani ed entusiasti e credevamo nel progresso della medicina. Comunque, riprendiamo il racconto. Quando sono pronto arriva dalla rianimazione il paziente intubato, assistito da un anestesista, da un infermiere dell’unità coronarica e dal cardiologo reperibile. Eseguo la coronarografia di base, che documenta lo stop di una grossa coronaria destra. Attraverso il catetere incomincio l’infusione del farmaco trombolitico e dopo un’ora, finalmente, il vaso si riapre ed il paziente ricupera rapidamente. Complimenti all’emodinamista! Viene trasferito in unità coronarica ed in un lampo tutti i reperibili, anestesista, cardiologo, infermiere di sala spariscono. Io, come in una commedia di Samuel Beckett, rimango da solo e nell’ora successiva mi devo dare da fare per stabilizzare definitivamente, si spera, il malato. Per fortuna tutto tace e non ci sono altre urgenze; si torna alla routine. Tiro il fiato, mi concedo un caffè forte e mezzo sigaro toscano (si, al riparo da sguardi indiscreti in posti isolati e dedicati in quegli anni si poteva fumare in ospedale). Sono ormai quasi le cinque del mattino. Comincio a sentirmi un po’ rintronato; stendo le gambe sul letto del medico di guardia… Vengo svegliato dopo un po’, mi sembra di non aver dormito ma sono ormai le sette; mi cerca l’ostetrico dell’Ospedale Infantile (la ginecologia a Trieste tradizionalmente è situata nell’Ospedale Infantile Burlo Garofolo). A mia moglie si sono rotte le acque e sono cominciate le contrazioni prima del tempo; non ci sono problemi comunque né per lei né per la bambina. Vista l’ora lui pensa che il parto avverrà ben dopo le otto, dopo lo smonto della mia guardia. Avviso comunque il reperibile che manda maledizioni a tutta la mia famiglia e decido di fare il verbale dell’intervento d’urgenza della notte e poi di fare un rapido giro in Unità Coronarica. Il tempo passa lentamente e il collega che mi sostituisce arriva puntuale. Dopo una doccia ed un altro caffè, inforco la Vespa e, sbadigliando, raggiungo l’Ospedale Infantile che è situato su un colle, a qualche chilometro dal nostro Ospedale Maggiore. Bene o male ci arrivo e dopo pochi minuti sono in sala parto. C’è il mio compagno di pesca ad assisterci, il primario della ginecologia. Mia moglie è al secondo parto e la bambina si presenta puntuale, dal verso giusto, dopo un’oretta. Dopo le misure e le operazioni di rito del neonatologo ci lasciano tutti in pace e, finalmente, me le posso godere tutte e due. Non passano dieci minuti, mentre io mi sto addormentando sulla poltrona accanto alle due ragazze, mi si materializza una figura umana che indossa un camice bianco, stirato in maniera impeccabile. Alla prima lo scambio per una visione, che purtroppo è reale. Il primario della neonatologia ha saputo della mia presenza ed è venuto a cercarmi. Grane in arrivo! Dovete sapere che a quei tempi, all’inizio degli anni ottanta, l’unico emodinamista che si occupava di neonati cardiopatici nel Friuli Venezia Giulia ero io; così da un paio di anni tutti i bambini di poche ore, con una grave malformazione al cuore passavano sotto le mie mani. Per fortuna non erano tanti, ma su almeno un paziente ogni due mesi si poteva contare. In assenza di esami non invasivi, come ad esempio l’ecocardiogramma che era praticamente agli albori o la risonanza magnetica e la tac multistrato, il mio compito era fare la diagnosi corretta di una malattia a volte molto complessa con un cateterismo cardiaco, per indirizzare poi il piccolo all’eventuale terapia chirurgica. Se c’erano le condizioni anatomiche ed il bimbo era particolarmente instabile dovevo intervenire direttamente io, per cercare di migliorare il flusso sanguigno. Usavo un catetere di Ruskin, che aveva in cima un palloncino gonfiabile, per effettuare una settostomia atriale, allargando così il forame ovale che, in questi malatini di poche ore si manteneva pervio, al livello del setto inter atriale, ed era l’unica possibilità per garantire l’arrivo di sangue ossigenato dai polmoni a tutto l’organismo. Un neonato di poche ore, in gravi condizioni, è in trasferimento in quel momento da Udine. Io sono desiderato con urgenza nella sala emodinamica dell’Ospedale Maggiore. Dopo aver salutato madre e figlia, in sella alla mia fidata Vespa azzurra riguadagno faticosamente la cardiologia nel centro di Trieste. Una grande frittata e molto caffè caldo mi aspettano nel cucinino del reparto. I miei secondi, le infermiere, sono state informate di tutto e dopo le congratulazioni di rito si danno da fare per rifocillarmi e rimettermi un po’ in sesto. Nel frattempo la sala viene allestita per quell’ospite delicato. Uno speciale materassino riscaldato, trasparente ai raggi X, è già stato montato sul letto e l’anestesista ha adattato alle dimensioni del neonato tutte le attrezzature destinate a mantenere le sue funzioni vitali. Non la faccio lunga; il bambino è arrivato e dopo tre ore di attività frenetica sono arrivato a capo della diagnosi ed ho fatto la settostomia atriale. Il piccolo malato, alla fine dell’intervento, è stato messo in una culla termica, che è stata caricata su un’ambulanza per essere trasportato alla terapia intensiva dell’Ospedale Infantile, mentre io, ancora vestito da sala, mi sono affrettato a seguirla con la mia Vespa. Al primo semaforo l’ambulanza ha dovuto fare una brusca frenata per non investire una macchina e, naturalmente, annebbiato dalla stanchezza e ancora pieno di adrenalina, nonostante pigiassi disperatamente sui freni l’ho tamponata. Nessun danno, per fortuna non sono neanche caduto. In mezzo ad un capannello di spettatori divertiti sono riuscito anche a raddrizzare la ruota anteriore che si era storta con l’aiuto di un infermiere ed ho potuto proseguire il mio viaggio verso mia figlia e mia moglie.

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