I programmi di prevenzione secondaria e di riabilitazione nella fase post – infarto miocardico
Supporto infermieristico come predittore di aderenza terapeutica ottimale
La fase post-acuta dell’infarto miocardico acuto (IMA)
L’epidemiologia clinica dell’infarto miocardico ha subito delle notevoli variazioni in termini progno-stici negli ultimi decenni. La tempestività delle procedure emodinamiche ha permesso una notevole riduzione della mortalità nella fase acuta, comportando di contro un aumento della mortalità nella fase post-acuta e soprattutto nel periodo postdimissione. Alcuni studi infatti, hanno evidenziato un aumento della mortalità nella fase di postospedalizzazione, con un progressivo aumento delle riospedalizzazioni dal primo mese fino ad un anno dopo la dimissione1. La ragione di questi dati è legata a diversi fattori, ma sicuramente associabile alla complessità del quadro clinico che si presenta nel post-infarto miocardico. Uno dei fattori prognostici sfavorevoli è attribuibile all’insorgenza dello scompenso cardiaco (primo predittore prognostico negativo di mortalità post-IMA)2-3.
Tra il rimodellamento ventricolare e il peggioramento della prognosi esiste un diretta correlazione nota ormai da tempo, che induce i clinici a non abbassare l’attenzione sugli interventi farmacologici mirati in questi pazienti. Un altro importante fattore prognostico negativo nella fase post-IMA è rappresentato dal rischio ischemico e trombotico a breve-medio termine. Il trattamento farmacologico nella fase postacuta della SCA va dal periodo di dimissione fino al primo anno e coinvolge diverse classi di farmaci che nel tempo si sono dimostrati fondamentali per la prevenzione dei fattori di rimodellamento ventricolare e di rischio trombotico. Questi farmaci hanno ridotto in maniera sostanziale il rischio di insorgenza di scompenso cardiaco post-IMA e l’insorgenza di nuovi fenomeni trombotici post-SCA e quindi di conseguenza hanno ridotto i numeri di riospedalizzazione e di incidenza di re-infarto. Tra questi farmaci troviamo i betabloccanti, gli ACE-inibitori, gli an-tiaggreganti piastrinici, le statine, ecc.
La prevenzione secondaria nei pazienti cardiopatici nella fase post-dimissione e l’importanza dei programmi di riabilitazione cardiologica
La prevenzione secondaria nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica è in grado di ritardare la progressione della malattia miocardica e l’insorgenza di nuovi eventi clinici anche fatali. La gestione della prevenzione secondaria dei pazienti nella fase post-acuta avviene in un contesto ideale che permette un intervento strutturato e dei percorsi specifici e mirati: la cardiologia riabilitativa. Spesso però il percorso del paziente cardiopatico nella fase post-acuta non è sempre efficace e uniforme. Questo è spesso causato sia dalla disomogeneità numerica di strutture cardiologiche riabilitative preposte all’assistenza post-IMA su tutto il territorio nazionale, che dalle ridotte risorse economiche e umane dedicate alla gestione di un elevato numero di pazienti che necessita di assistenza. Nel nostro Paese la percentuale di pazienti che vengono trasferiti in strutture di riabilitazione cardiologica dopo una SCA è collocata tra il 12-18%, percentuali nettamente inferiori agli standard Europei1. Di qui nasce la necessità di individuare efficacemente i pazienti ad alto rischio tramite criteri di priorità di accesso ai percorsi e ai programmi di prevenzione secondaria. Definire correttamente i pazienti con alto rischio trombotico già nella fase post-dimissione rappresenta una enorme potenzialità nella riduzione dei rischi, in quanto permette di avviare prontamente un percorso di prevenzione secondaria intensiva e un percorso assistenziale mirato. È fondamentale ricordare che le strategie di prevenzione secondaria devono essere applicate nella fase post-acuta e nel periodo dopo la dimissione in quanto intervenire in questo determinato lasso di tempo, può portare una riduzione nella progressione della malattia, una riduzione nella mortalità e nell’incidenza di nuovi eventi clinici, migliorandone la qualità di vita del paziente e nel contempo porta a una riduzione dell’ospedalizzazione e delle recidive ischemiche. I programmi di prevenzione secondaria e di riabilitazione coinvolgono molte figure professionali e permettono l’integrazione tra strutture ospedaliere e territoriali, in attività complementari e sinergiche: cardiologi, infermieri, medici di medicina generale in contesti ospedalieri, in strutture riabilitative territoriali, ambulatori cardiologici. Data la difficoltà nella gestione territoriale e le poche risorse presenti per avviare un percorso riabilitativo nel post-IMA, è opportuno incentivare programmi ambulatoriali nella fase post-acuta che prevedano un monitoraggio periodico dello stato clinico del paziente. Un aspetto importante che riguarda i programmi di prevenzione secondaria è sicuramente la valutazione dell’aderenza terapeutica alla terapia post-IMA. Infatti proprio per ridurre l’andamento verso fattori prognostici negativi come lo scompenso cardiaco e il rischio trombotico post-acuto, in questi pazienti è fondamentale assicurare degli obiettivi terapeutici mirati e duraturi.
La complessità della terapia post-angioplastica e il ruolo dell’infermiere specialista nell’aderenza terapeutica
I trattamenti farmacologici in ambito cardiovascolare sono numerosi e negli ultimi anni hanno dimostrato una capacità di ridurre morbilità e mortalità nei pazienti. In Italia però l’Osservatorio ARNO ha evidenziato una scarsa aderenza alle prescrizioni terapeutiche più importanti, come ad esempio i farmaci utilizzati per la doppia antiaggregazione piastrinica1. L’aderenza alla terapia è un fenomeno secondo il quale il paziente assume la terapia seguendo le indicazioni ricevute dal clinico. Per aderenza ad un trattamento farmacologico si intende: il raggiungimento di due diversi obiettivi come la corretta assunzione, secondo le modalità prescritte e la corretta implementazione del trattamento (farmaci, tempi, dosi, modalità di assunzione), nonché la persistenza (costanza e continuità nell’assunzione del farmaco)4. Il fenomeno della scarsa aderenza ha certamente un’eziologia complessa ed è sicuramente causato da numerosi fattori che coinvolgono aspetti legati alla sfera intenzionale del paziente e a quella non intenzionale. La non aderenza intenzionale è influenzata da convinzioni sbagliate della propria malattia, dalla negazione della stessa, dalla scarsa informazione dei trattamenti, dalla paura degli effetti collaterali, dall’asintomaticità della malattia. La non aderenza NON intenzionale invece è legata a fattori socio-economici come i costi dei farmaci o il basso livello di istruzione del paziente, la dimenticanza del farmaco, la non comprensione dell’importanza terapeutica e del rischio legato alla non assunzione. Quest’ultimo fattore e strettamente correlato al grado di efficienza comunicativa medico-paziente soprattutto nella fase di dimissione dopo il ricovero per SCA e alla relazione assistenziale intra e post-ospedaliera. Il personale infermieristico potrebbe svolgere un ruolo fondamentale per contrastare questo fenomeno soprattutto se coinvolto in una rete di progetti mirati all’ottimizzazione dell’aderenza terapeutica. Il professionista sanitario specializzato è in grado, grazie a una relazione di fiducia instaurata con il paziente e ad una comunicazione adeguata al paziente e/o al suo caregiver, di fornire informazioni corrette riguardo le prescrizioni terapeutiche e in questo modo di ridurre i dubbi derivanti da incertezza prognostica e paura della terapia. Il supporto infermieristico risulta essere un predittore di aderenza terapeutica ottimale5. La scarsa aderenza ai trattamenti farmacologici cardiovascolari merita un’attenzione particolare per l’impatto clinico e organizzativo che esso comporta. Infatti la scarsa aderenza terapeutica rappresenta un problema di forte rilevanza per la salute pubblica secondo l’OMS ed è stata associata a un aumento del rischio di morbilità e mortalità, nonché dei costi sanitari con aumento delle ospedalizzazioni. Nel tempo sono stati sviluppati diversi metodi e strumenti di misurazione dell’aderenza terapeutica (misurazione del livello del farmaco nel sangue o nelle urine, conteggio delle pillole, revisione dei rifornimenti in farmacia, uso di portapillole elettronici (MEMS) ecc.) Tuttavia questi indicatori di aderenza e persistenza sono risultati estremamente inefficaci e di poca praticità, oltre che dispendiosi. Sebbene non esista un “gold standard” tra i diversi indicatori di valutazione, i metodi più utilizzati, soprattutto per la maggiore praticità in termini di raccolta dati, rimangono le scale di valutazione del grado di aderenza terapeutica dei pazienti, le quali si basano sulle risposte dei pazienti a specifiche domande. La prima scala, Morisky Medication Adherence Scale (MMAS), di cui esiste una versione italiana validata, valuta l’ambito relativo al trattamento farmacologico; la seconda, Hill-Bone Compliance Scale (HBCS) analizza anche ambiti comportamentali. Entrambe le scale quindi prendono in considerazione i due aspetti caratterizzanti il fenomeno in questione, la sua natura multidisciplinare e anche la sua natura fortemente comportamentale. Queste scale sono facilmente implementabili, semplici ed economiche, anche se come tutti i questionari sono soggetti a rischio di poca oggettività e inaffidabilità. Per questo la loro efficacia aumenta solamente con un corretto utilizzo da parte di personale sanitario che deve essere adeguatamente formato a riguardo. Oltre alla corretta conoscenza della scala di valutazione, il personale infermieristico deve saper instaurare con il paziente un rapporto di fiducia e deve avere un’adeguata capacità di comunicazione, tale da poter ottenere dalle risposte del paziente, informazioni in merito all’assunzione della terapia e conseguentemente avere la possibilità di riconoscere le motivazioni che hanno portato il paziente a non assumere correttamente la terapia prescritta, così da poter intervenire con piani strategici mirati.
Strategie di intervento per migliorare l’aderenza terapeutica: inserimento del personale infermieristico nei progetti ambulatoriali postdimissione
È fondamentale una gestione multidisciplinare che possiamo definire come “Medication Adherence Stewardship program”, ossia un programma di gestione che coinvolga tutte le figure professionali come il cardiologo, il medico di medicina generale e il personale infermieristico in maniera multidisciplinare. Queste figure hanno la responsabilità di definire gli strumenti per il monitoraggio all’aderenza terapeutica sulla base dei dati acquisiti tramite varie metodologie come le scale di Morisky e di promuovere programmi di audit e feedback sull’appropriatezza dell’assunzione. L’assistenza infermieristica al paziente nella fase post-acuta dell’infarto miocardico deve essere orientata verso la promozione di comportamenti di autocura, finalizzati al mantenimento di un buono stato di salute e al miglioramento dell’empowerment e dell’auto-efficacia sia del paziente che della sua famiglia (teoria del selfcare). Un approccio personalizzato facilita l’identificazione e la gestione delle condizioni di rischio e migliora l’efficacia delle strategie di intervento6. Considerando l’impatto negativo della scarsa aderenza ai trattamenti farmacologici, è fondamentale implementare interventi mirati a favorire un’ottimale aderenza terapeutica. La qualità comunicativa tra operatore sanitario medico/infermiere e paziente rappresenta l’elemento di maggiore rilievo nel condizionare l’effettiva aderenza terapeutica. Per questa ragione bisognerebbe iniziare la comunicazione sulla natura della malattia e sulla terapia prevista dopo la dimissione, immediatamente dopo il ricovero. L’infermiere ha un ruolo fondamentale nel fornire indicazioni sulla terapia prescritta. Il paziente indirizzato verso percorsi ambulatoriali nella fase post-acuta deve essere preso in carico dal personale infermieristico specializzato e inserito in programmi di prevenzione secondaria e in percorsi formativi personalizzati. Gli interventi da attuare sono molteplici. L’infermiere all’interno dei progetti ambulatoriali dovrebbe:
- Individuare pazienti a rischio tramite l’utilizzo di scale di valutazione validate (scala di Morisky).
- Prevedere un primo colloquio postdimissione dopo 30 giorni.
- Prevedere una comunicazione semplice con il paziente tramite recall telefonici soprattutto con soggetti ad alto rischio trombotico o quelli individuati a rischio tramite le scale di valutazione come la scala di Morisky.
- Individuare i principali fattori che contribuiscono alla non aderenza intenzionale e non intenzionale.
- Promuovere interventi formativi semplici adeguati al paziente.
- Prevedere follow-up costanti nel tempo, così da contribuire a una maggiore aderenza e continuità terapeutica.
- Costruire un rapporto di fiducia con il paziente e i suoi familiari.
- Promuovere cambiamenti nello stile di vita del paziente (fumo di sigaretta, attività fisica, alimentazione) tramite percorsi educativi personalizzati.
Numerosi studi e linee guida cliniche evidenziano l’efficacia dei percorsi riabilitativi e dei programmi ambulatoriali gestiti dagli infermieri rispetto a quelli convenzionali. È cruciale che i programmi di riabilitazione cardiologica e quelli di monitoraggio ambulatoriale, siano implementati il prima possibile dopo la dimissione ospedaliera, in quanto incidono efficacemente sulla qualità di vita del paziente e riducono la mortalità e la riospedalizzazione7. L’efficacia dell’assistenza infermieristica rivolta al paziente cardiologico nel post-infarto miocardico attraverso l’utilizzo di follow up intensivi e attuati tramite protocolli standardizzati, potrebbe migliorare la prognosi postinfartuale.
Bibliografia:
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