“Ospedale” di Franco Arminio

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“Ospedale” di Franco Arminio

Franco Arminio è un poeta. E’ nato e vive a Bisaccia, in Irpinia d’Oriente, provincia di Avellino. Si autodefinisce anche “paesologo”, esperto-studioso del paese, soprattutto dei paesi oramai spopolati, dei valori dei piccoli centri periferici lontani dai percorsi noti e dalla dimensioni e dalla frenesia, anche rassicuranti, delle grandi città. Ma è soprattutto un poeta del silenzio delle relazioni umane, cultore delle piccole cose e delle parole che “uniscono e curano”.

Ha pubblicato più di trenta libri per Bompiani, Einaudi e altri editori. L’ultimo libro, Canti della gratitudine è da poco in libreria per Bompiani. Nei suoi libri racconta anche la malattia, la vecchiaia, la morte e l’Ospedale, definito come “un osservatorio astronomico, un reparto di geologia: la malattia viene dalle radici, dal fitto mormorio che alimenta la vita degli organi”. Ha scritto che “negli Ospedali si deve tener conto del respiro prima di tutto. Un corpo respira il mondo ed è respirato dal mondo. In questo scambio perenne e implacabile ci può essere un guasto” da curare, considerando sempre che “un uomo che arriva in ospedale non è un uomo, è un mondo”. In un piccolo libro di 32 pagine intitolato proprio Ospedale, pubblicato da Bertoni Editore in edizione limitata e numerata, descrive la vita in ospedale, vissuta dal malato e dal personale sanitario, con poesie alternate ad immagini di rami secchi, spezzati dall’albero della vita e metafora dell’immobilità. Nelle poesie di questo libretto si ritrovano situazioni a noi familiari. L’urgenza del ricovero, la comunicazione della diagnosi, la quotidianità dell’attesa, gli apparentemente piccoli accadimenti, la routine di un giorno qualunque vissuto in ospedale, i legami da mantenere e tenere con i parenti, considerati il resto dell’albero, gli altri rami, non ancora secchi, che non devono spezzarsi e possono continuare senza il gravoso tabù della morte. Poesia per poesia, come fossero capitoli, si dipana un resoconto della delicata assistenza ai malati, dal mattino alla sera, dal momento in cui i pazienti, spesso anziani, si svegliano, aspettano, ascoltano, sperano fino a quando si ritorna a dormire. Per poi iniziare, purtroppo non sempre e per tutti, una altro giorno.

Ospedale

Ogni paziente ha un suo bicchiere d’acqua,
una minestra grigia e una mela,
e un osso come sua bandiera,
un pallido sudore come sua candela.

Chiedo se hanno sognato qualche amore,
uno negli occhi alza la sua rovina,
un altro mi guarda con le ossa fuori
dalla pinta delle dita.


Facciamo le barbe, tagliamo le unghie,
si fa il giro delle stanze per vedere
se le flebo sono finite,
se l’ossigeno si fa strada nelle vene,
azzurro come la neve.


Gli uomini e le donne che stanno qui
sono temperature, pressioni, glicemie.
Chi li assiste misura i parametri vitali,
conta i frutti dell’autunno in primavera,
prova ad alterare le stagioni,
a rimandare il tramonto del sole,
il lutto della sera.


Sento il cattivo odore
che annuncia la morte,
il corpo ora lo chiudono in un telo
e c’è solo il tempo di disinfettare
e già arriva un altro respiro,
una bocca serrata, un pallore.
Un letto d’ospedale
è un cesto dove portare la frutta
staccata dall’albero,
è una casa a cui nessuno
si affeziona.

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