La tutela della salute tra diritto all’autodeterminazione del paziente e doveri del curante

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La tutela della salute tra diritto all’autodeterminazione del paziente e doveri del curante

Il caso emblematico dei pazienti Testimoni di Geova
Coniugare due diritti, ovvero quello della libera scelta informata del paziente anche di rifiutare le cure e diritto dei curanti a porre in essere terapie senza condizionamenti altri se non di natura clinica e scientifica consolidati: quale giurisprudenza attuale e quali oneri per i medici e le strutture sanitarie

Introduzione
I Testimoni di Geova, un movimento religioso cristiano teocratico fondato in Pennsylvania (USA) nel 1870, ha tra i propri precetti il divieto di donare o ricevere sangue. Tale divieto categorico può determinare problemi di natura medico-legale e di condizionamento delle scelte terapeutiche da parte dei medici, che sono invece soggette al solo scopo terapeutico basato sull’evidenza scientifica e clinica di beneficio assoluto rispetto ai rischi. Il caso specifico del rifiuto di trasfusioni dei Testimoni di Geova offre la possibilità di inquadrare la problematica del diritto alla libera scelta del paziente, fino al rifiuto di terapie anche potenzialmente salvavita, e degli obblighi e delle responsabilità ricadenti sul medico curante in tale contesto.

Autodeterminazione del paziente e responsabilità del medico
Il c.d. consenso informato

L’articolo 32 della Carta costituzionale sancisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Le attività di cura esercitate dal medico obbligano ad un consenso informato del paziente sull’iter terapeutico in maniera tale che quest’ultimo possa compiere scelte in libertà e consapevolezza, dunque in condizioni di responsabilità condivisa e di alleanza terapeutica. La mancata informazione piena, comprensibile, attuale al paziente da parte del medico lede il diritto di autodeterminazione del paziente, come riscontrabile nella Convenzione di Oviedo, ove si stabilisce che il consenso libero e informato del paziente all’atto medico non debba essere valutato solo alla stregua del profilo della liceità del trattamento, ma considerato come un vero e proprio diritto fondamentale del “cittadino europeo”, da inquadrarsi nell’ambito più generale del diritto all’integrità della persona, così come sancito dall’art. 5.
Il consenso, quale atto di libera scelta del paziente, è richiamato anche nel Codice deontologico della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri, che prevede l’obbligo di informazione al paziente (art. 33) o all’eventuale terzo (art. 34), nonché l’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente (art. 35) o del legale rappresentante nell’ipotesi di minore (art. 37).
Nel caso specifico dei Testimoni di Geova e del diniego al ricorso all’emotrasfusione anche in contesto di urgenza/emergenza, le disposizioni sul consenso informato sono contenute nell’art. 4 D.M. del 1.9.1995 del Ministero della Sanità, dove è prevista la necessità del consenso informato. In caso di minori, l’art. 4 recita anche che: “(…) il consenso deve essere rilasciato da entrambi i genitori o dall’eventuale tutore. In caso di disaccordo tra i genitori, il consenso va richiesto al giudice tutelare. Quando vi sia un pericolo imminente di vita, il medico può procedere a trasfusione di sangue anche senza consenso del paziente. Devono essere indicate nella cartella clinica, in modo particolareggiato, le condizioni che determinano tale stato di necessità. Nei casi che comportano trattamenti trasfusionali ripetuti, il consenso si presume formulato per tutta la durata della terapia, salvo esplicita revoca da parte del paziente”. (1)
La sentenza della Corte di Cassazione n. 4211/2007 ha negato il risarcimento dei danni richiesto da un Testimone di Geova al medico che lo aveva sottoposto ad una trasfusione di sangue nonostante il suo parere contrario. La Suprema Corte, nelle motivazioni della sentenza, ha riconosciuto la legittimità del comportamento dei sanitari che hanno operato la trasfusione nel ragionevole convincimento che contempla la possibilità di ulteriore interpello del paziente oramai incosciente nel caso di imminente pericolo di vita, poiché l’intervento è nell’estremo interesse del paziente stesso.

Il cosiddetto biotestamento: Legge n. 219 del 22 dicembre 2017
All’articolo 1, la Legge n. 219/2017 recita: “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge, nel rispetto dei principi della Costituzione (art. 2, 13 e 32) e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Tale punto di svolta legislativo traccia da un lato un perimetro all’interno del quale non trovano spazio le considerazioni di tipo etico religioso dei sanitari, ma dall’altro sottolinea la centralità del rapporto di volontà del paziente ed esclude la responsabilità civile e penale del medico per la sua attuazione (art. 1, co. 6). Pertanto, ogni persona-paziente ha il diritto “di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.
Si precisa inoltre nel dispositivo legislativo che: “il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico” (art. 1, comma 4). È prevista la possibilità del rifiuto da parte del medico alla somministrazione di trattamenti sanitari contrari alla legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Pertanto, il bene protetto dall’obbligo di informazione è il diritto all’autodeterminazione del singolo, e il soggetto passivo di tale obbligazione è la struttura sanitaria, che verso il paziente ha un rapporto di natura contrattuale ed è legittimata passiva dell’azione d’inadempimento promossa dal paziente. Ciò comporta che in capo alla struttura grava l’onere della prova in merito al corretto e compiuto adempimento degli obblighi informativi nei confronti del paziente. L’obbligo di informazione nei confronti del paziente contiene anche il rispettivo contrario, ossia il rifiuto da parte di costui di essere informato relativamente alle proprie condizioni: egli, infatti, può stabilire un diverso destinatario di tutte le informazioni di cui all’art. 1. Il destinatario del trattamento sanitario può, in qualunque momento, modificare o revocare il proprio consenso, nelle stesse forme in cui lo ha manifestato.
Per le persone minori o incapaci, la Legge pone un forte accento sulla valorizzazione del loro arbitrio: essi devono essere resi edotti del loro stato di salute e delle cure possibili in modo commisurato alla capacità di comprensione. L’art. 4 della legge che disciplina il regime delle disposizioni anticipate di trattamento (cd. DAT), che possono essere definite un caso di ultrattività della volontà, si esplicitano in una manifestazione di volontà, e sono rese ora per allora, in previsione di una futura ed eventuale incapacità di autodeterminarsi. Le DAT sono un negozio giuridico unilaterale ad efficacia condizionata e differita: acquistano rilevanza in un arco temporale successivo e al verificarsi dell’evento di perdita della capacità di esprimere un consenso informato. Il primo comma dell’art. 4 prevede che il soggetto provveda all’indicazione di un fiduciario che ne “faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie”. Per la rapidità con la quale il progresso scientifico offre nuove soluzioni a patologie fino a poco tempo prima incurabili, vi è la facoltà spettante ai sanitari di disattendere le DAT nei casi, contemplati dal comma 5, in cui “appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.

Rilevanza penale della condotta del medico, tra il reato di violenza privata, ex art. 610 c.p. e lo “stato di necessità”, ex art. 54 c.p.
Nel caso in cui il medico agisca in senso contrario rispetto alla volontà manifestata dal paziente, si determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in essere in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo (Cassazione Penale, sezione IV, sentenza n. 35822/2011; Cassazione Penale, sezione IV, sentenza n. 36519/2001). Ma la Corte di Cassazione (2) ha chiarito che, in materia di rifiuto di determinate terapie, in base al diritto fondato sul combinato disposto degli artt. 32 Cost., 9 L. n. 145/2001 e del Codice di Deontologia medica, pur in presenza di un espresso rifiuto preventivo, non può escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo, od altamente probabile, che esso non sia più valido e decida quindi di praticare la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente. La Suprema Corte, a distanza di pochi mesi, con la sentenza n. 23676 del 15.9.2008, ha inaugurato una nuova stagione giurisprudenziale in materia, precisando che: “il paziente che, per motivi religiosi o di diversa natura, intendesse far constare il proprio dissenso alla sottoposizione a determinate cure mediche, per l’ipotesi in cui dovesse trovarsi in stato di incapacità naturale, ha l’onere di conferire ad un terzo una procura “ad hoc” nelle forme di legge, ovvero manifestare la propria volontà attraverso una dichiarazione scritta che sa puntuale ed inequivoca, nella quale affermi espressamente di volere rifiutare le cure quand’anche venisse a trovarsi in pericolo di vita”. Inoltre, ha chiarito che “il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte; tuttavia, il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco e attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata ex ante ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure”. In successive pronunce, la Suprema Corte, specificando cosa si deve intendere per violenza privata, si è così espressa: “integra il reato di violenza privata la condotta dell’infermiere il quale sottoponga a trattamento terapeutico un paziente che in relazione ad esso abbia, invece, manifestato un libero e consapevole rifiuto, non potendosi ritenere applicabili, in tale ipotesi, neppure le scriminanti dell’adempimento di un dovere o dello stato di necessità, condizioni esimenti che cedono il passo rispetto al diritto all’inviolabilità della libertà personale, intesa anche come libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica” (Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 38914/2015).
Una sentenza del Tribunale di Termini Imerese (3) ha analizzato la responsabilità penale del medico che pratica un trattamento sanitario (anche se salva vita) contro il dissenso espresso del paziente. In particolare, sotto il profilo tecnico la sentenza qualifica la fattispecie dell’intervento medico contro il dissenso espresso come reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p. Per quanto concerne la scriminante ex art. 54 c.p. dello stato di necessità, questa non è da ritenersi giuridicamente applicabile neppure in ipotesi di imminenza di una situazione di grave pericolo alla persona indilazionabile e cogente. A prescindere dalla sussistenza o meno del pericolo di vita, nel caso di rifiuto manifestato dal paziente a trattamenti sanitari, non è mai invocabile dal medico la scriminate dello stato di necessità. Pertanto, l’unico caso in cui è possibile ritenere operante la scriminante suddetta è quello in cui il paziente versi in una situazione di incapacità di manifestazione del volere e non abbia espresso in precedenza nessuna volontà circa il quadro clinico riconducibile al pericolo imminente e attuale di danno grave alla persona. (4)
L’analisi della giurisprudenza definisce dunque il principio, assolutamente in linea con il nostro ordinamento giuridico incentrato sulla concezione personalistica dell’Uomo, della volontà del paziente come limite ultimo, non valicabile e non sacrificabile, dell’esercizio dell’attività medica. Per contro, da decenni sul piano etico e deontologico, si distingue chiaramente il rifiuto del trattamento dai casi di eutanasia. Il medico può e deve opporsi di praticare trattamenti che provocano direttamente la morte del paziente. Nel caso di dissenso espresso del paziente al trattamento, lo stesso Codice stabilisce il divieto per il medico di continuare i trattamenti rifiutati. Da ultimo, una recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha nuovamente ribadito il principio in base a quale “il paziente Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita” (5).

Il caso specifico del paziente Testimone di Geova che rifiuta le trasfusioni. Tecniche alternative alla trasfusione.
Nella casistica, anche giurisprudenziale, sono state riconosciute alcune delle tecniche che i medici usano quando si trovano davanti un paziente Testimone di Geova che avrebbe bisogno di una trasfusione, quali il recupero intraoperatorio di sangue, il supporto vasocostrittivo e vasopressorio al circolo, l’utilizzo di concentrati piastrinici, plasma e concentrati di globuli rossi. Infatti, come riportato in un articolo del 2000 pubblicato sulla rivista ufficiale dei Testimoni di Geova, “La torre di guardia”, di fronte ad un quesito specifico, la risposta dell’editore fu: “Non lo sappiamo. La Bibbia non fornisce dettagli, per cui ogni fedele può decidere per sé e renderne conto a Dio.” (6)

Conclusioni
Il rifiuto della trasfusione da parte dei Testimoni di Geova, anche in un contesto di urgenza, è emblematica manifestazione di inviolabile diritto all’autodeterminazione del paziente ed alla libertà di scelta, che comporta l’imminente ed ineluttabile sacrificio del bene della vita, ed è condizionato sempre a dovere di dissenso informato, manifesto, libero, autentico e attuale, reversibile. Infatti, il consenso informato del paziente è il punto nodale del trattamento sanitario, imprescindibile, con le uniche eccezioni 1) dei soli trattamenti sanitari obbligatori disciplinati con legge dallo Stato, 2) della scriminante dello stato di necessità, quando non vi è la possibilità di esprimere un consenso consapevole. In questo caso occorre documentare nella cartella clinica le particolari condizioni del paziente che giustifichino il ricorso allo stato di necessità.

Riferimenti bibliografici e normativi

  1. Decreto Ministeriale del 1.9.1995, art. 4, tutt’ora vigente.
  2. Cassazione civile, sez. III, sentenza n. 4211 del 23/02/2007.
  3. Tribunale Termini Imerese, sentenza n. 465/2018.
  4. Cassazione Civile, SS.UU., sentenza n. 21745/2008.
  5. Cassazione Civile, sezione III, sentenza n. 29469/2020.
  6. Questions From Readers, “The Watchtower Announcing Jehovah’s Kingdom”, 15.6.2000.

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